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giovedì 10 ottobre 2024

Stefania Gagliardini, Spazi, gallerie, azioni e contesti di ricerca a Roma negli anni Ottanta, tesi di dottorato, 2021

Stefania Gagliardini, Spazi, gallerie, azioni e contesti di ricerca a Roma negli anni Ottanta.

tesi di dottorato
Università La Sapienza, Roma

La tesi si articola in quattro capitoli, a cui si aggiungono l'Introduzione, gli Apparati, le immagini, la Bibliografia e la Conclusione. Il primo capitolo offre una mappatura cronologica della situazione capitolina, delineata anche attraverso l'analisi di alcune rassegne nazionali in cui è presente la componente romana. Mostre che però non tengono conto della frantumazione linguistica, seguita alla crisi del concettualismo. Infatti alla forte carica di rinnovamento si contrappone lesigenza selettiva del mercato, che non riesce a «sostenere la babele linguistica». Di conseguenza le rassegne degli anni Ottanta si concentrano sulle pratiche artistiche tradizionali, ben assestate nel sistema dell'arte. Il ritorno alla pittura, tuttavia, non costituisce una automatica accettazione delle regole economiche, come dimostrano i Trattisti, che preferiscono le piazze agli studi e alle gallerie. Si è inoltre accennato a tre gruppi antagonisti alle logiche di mercato - eventualisti, piombinesi e astratto poveristi - prendendo in esame un evento che li coinvolge tutti, la mostra-dibattito Nuove avanguardie a Roma, organizzata presso il Centro Studi Jartrakor.

Nel secondo capitolo la dissertazione sulle mostre di ricognizione, romane e nazionali, è stata anche occasione per seguire il dibattito sul cambiamento dell'approccio ermeneutico, approfondito dalle mostre-convegno organizzate dai critici della nuova generazione. L'esigenza di ridefinire la funzione del critico e dell'artista ha determinato la nascita di periodici autoprodotti, in cui le due figure depongono le rispettive diffidenze per impegnarsi nel rinnovamento del sistema dell'arte: «Aut.Trib.17139», «891», «Opening» e «Arte Argomenti».

Tutte queste pubblicazioni manifestano lesigenza di rompere la catena artista-critico-gallerista e comunicare in modo schietto con il lettore. Si entra poi, con il terzo capitolo, nel merito della ricostruzione cronologica delle attività degli spazi autogestiti a Roma tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, di cui la storiografia fa scarsa menzione. Per La Stanza e Sant'Agata de' Goti gli unici studi sono quelli pubblicati da Daniela Lancioni19 nel corso delle sue ricerche sugli anni Settanta, oltre a qualche accenno sulla recente pubblicazione del CRDAV Spazi d'arte20. Non è stato compiuto però uno studio complessivo che renda giustizia alle sperimentazioni attuate in questi laboratori di ricerca, tanto incisivi per il passaggio dalle istanze concettuali al ritorno alla pittura. La dissertazione è stata anche occasione per documentare il clima in cui hanno operato gli artisti, per delineare i loro interessi, che coinvolgono teatro, poesia, e musica. Si è inteso inoltre sottolineare la distinzione tra gli artisti di Sant'Agata e quelli che da questo spazio si trasferiscono al civico 21 della stessa via, Antonio Capaccio e Mariano Rossano, artisti promotori, insieme a Gianni Asdrubali, dell'Astrazione povera. Proprio in questo spazio nasce l'idea di aprire gli studi al pubblico21, con un certo anticipo rispetto alla più conosciuta mostra Extemporanea22 all'Attico. Nel clima settario e un po' utopistico degli anni Settanta nasce anche il Centro Studi Jartrakor, le cui ricerche proseguono per un decennio nella totale auto-emarginazione23. Proprio a partire da quelle premesse si originano le sperimentazioni messe in campo da Domenico Nardone e Daniela De Dominicis a Lascala, spazio interessato a portare l'oggetto-stimolo eventualista nel tessuto urbano.

Il quarto capitolo è invece dedicato agli spazi no-profit, le cui esposizioni sono state analizzate in ordine cronologico. All'interno di questa prassi acquistano un significato importante iniziative come quelle promosse da diverse gallerie, interessate maggiormente a sostenere una linea di ricerca che a vendere le opere: Alice, Il Campo, Arco di Rab, Speradisole, Break Club, OACF58. Pur essendo formalmente spazi autogestiti, L'Alzaia e il Lavatoio contumaciale sono stati inseriti in questa sezione. Sotto la guida di Rossi Lecce, negli anni Ottanta, L'Alzaia infatti smette progressivamente di essere un laboratorio permanente inserito nel territorio e si configura come un centro attivo all'interno di mostre istituzionali di grande rilevanza mediatica. Il Lavatoio, invece, nonostante fosse un'associazione al femminile, legalmente costituita, è stato diretto unilateralmente da Bianca Pucciarelli. Inoltre lo spazio non ha mai raccolto artisti intenti a portare avanti una ricerca comune. Di altra natura è Underwood, un'associazione culturale avviata dai fratelli Fabrizio e Francesco Carbone, artista e giornalista l'uno, fotografo l'altro. Con l'obiettivo di dare dimora a tutte quelle ricerche che crescevano "nel sottobosco", la galleria ha accolto presenze internazionali eterogenee, insieme agli artisti della rivista «891». Ci è sembrato interessante inoltre ricostruire la storia dell'Arco di Rab, unica associazione improntata ad accogliere tutte le componenti del sistema dell'arte (artisti, galleristi, critici, collezionisti, intellettuali esperti in vari campi, semplici fruitori), in una location innovativa, simile a un loft newyorkese, che permette alle opere di dialogare con lo spazio industriale che le ospita. La galleria è tra le prime, insieme a Speradisole, al Break club e alla galleria Stefania Miscetti, ad accettare quel processo di decentramento dell'arte, che dal centro storico si sposta in zone più periferiche.

Le note conclusive si propongono di tirare le fila dell'indagine effettuata, suggerendo possibili percorsi interpretativi. Gli apparati contengono soprattutto le interviste agli artisti, ai quali questo lavoro dà una certa centralità, nell'intento di capovolgere l'idea tradizionale dell'artista ispirato, che necessita del critico per dare significato all'opera. Non si vuole ridurre assolutamente al silenzio la critica, ma far emergere le voci di chi spesso resta muto. Si è scelto di far parlare direttamente i protagonisti che in quegli anni sono stati parte attiva negli spazi di ricerca, svolgendo il ruolo di critici, galleristi e direttori di riviste autoprodotte. Le numerose testimonianze degli attori principali, non tutte confluite in appendice, hanno permesso in parte di colmare le lacune documentarie. L'apparato iconografico a corredo del testo è stato fornito dai diretti interessati ed è in gran parte inedito, dunque costituisce un prezioso strumento di documentazione. Il testo si conclude con la bibliografia generale e specifica di riferimento, articolata al suo interno, anche per spazio espositivo. 

 

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mercoledì 2 ottobre 2024

Il Gruppo di Piombino. Da Siena a Firenze (quasi) quarant'anni dopo, 2024

IL GRUPPO DI PIOMBINO
Da Siena a Firenze, (quasi) 40 anni dopo.
ZAP - Zona Aromatica Protetta
vicolo di Santa Maria Maggiore 1, Firenze
12-15 settembre 2024


La prima volta che i tre artisti (Salvatore Falci, Fontana e Modica), che insieme a Cesare Pietroiusti e Domenico Nardone, daranno vita al sodalizio noto come Gruppo di Piombino, furono invitati ad esporre in una mostra pubblica fu in occasione di “Una nuovissima generazione nell'arte italiana”, una mostra curata da Enrico Crispolti ed allestita nella Fortezza medicea di Siena nell'agosto del 1985. Il critico riconobbe e individuò nel loro modus operandi delle peculiarità che li rendevano diversi dagli altri artisti invitati, tanto da spingerlo a creare una sezione della mostra espressamente a loro dedicata - a cui diede il titolo di “Azione partecipata” - e che così definì in catalogo: 

L'artista non propone un'opera, ma un'azione; e non un'azione individuale, ma tipicamente un'azione collettiva (pur attraverso opzioni individuali altrui). Il suo fare si realizza interamente nella partecipazione degli altri. Naturalmente la sollecitazione è comportamentale, psicologica, ideologica, tocca zone profonde, istintualità, resistenze, liberazioni. L'artista propone oggetti da usare, e realizza il senso del proprio intervento attraverso la verifica delle corrispondenze, delle risposte, dunque la loro lettura.

Oggi quelle stesse opere esposte a Siena quasi 40 anni fa, sono di nuovo insieme qui a Firenze in occasione di “Wails & Words on Street Art”.


OPERE IN MOSTRA

Contenitori ideologici di Stefano Fontana. Cinque cassette di pvc, di colore giallo e con sopra stampigliata la scritta in nero "Contenitore ideologico", vennero installate dall'artista, per un periodo di circa quindici giorni, in alcuni spazi pubblici (es. l'atrio di una scuola). I contenitori, provvisti di feritoia per imbucare, somigliavano vagamente alle cassette per la posta o a quelle che in alcuni luoghi particolari venivano destinate a ricevere i "suggerimenti per migliorare il servizio". L'opera fu presentata per la prima volta alla galleria Lascala di Roma nell'aprile 1985. Ogni contenitore venne esposto con accanto il contenuto in esso rinvenuto.



Rilevatore estetico di Pino Modica. L'artista aveva progettato uno strumento che apparentemente serviva a misurare il grado d'inclinazione della Torre di Pisa. In realtà esso celava al suo interno una telecamera, che veniva attivata da un interruttore a campo elettromagnetico ogni qual volta qualcuno accostava l'occhio all'oculare. Il Rilevatore fu successivamente esposto alla galleria Lascala nel novembre del 1985 assieme al breve cortometraggio - intitolato Rilevazioni estetiche - realizzato dagli involontari operatori che, di volta in volta avevano inconsapevolmente attivato la telecamera.


Itaj-Doshin
di Salvatore Falci. L'artista diede questo nome ad una serie di lavori formati da lastre di vetro uniformemente ricoperte di nero e intensamente affollate di graffiti. Queste lastre erano state da lui precedentemente disposte a copertura di alcuni tavoli presenti in diversi spazi pubblici (es.la sala d'aspetto della stazione ferroviaria) e ritirate dopo un certo periodo di "esposizione". Questi vetri raccoglievano quindi la produzione di graffiti lasciata dai frequentatori di tali ambienti, che scambiavano facilmente le lastre così preparate per normali superfici di appoggio.



giovedì 26 settembre 2024

Trilogia di una città sconosciuta di Domenico Nardone

 Trilogia di una città sconosciuta

di Domenico Nardone


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Questo di Domenico Nardone, assai meglio d’ogni romanzo non necessario, può essere definito, prendendo in prestito un’espressione propria della tradizione narrativa letteraria, un esempio di imperdibile “catasto magico”, in quanto racchiude, custodisce e immagazzina, illimitatamente, con lo stesso puntiglio di un collezionista di memorabilia, l’intero scibile (o quasi) della nostra storia recente e trascorsa. Un po’ come accade con il mondo animale al Museo Civico di Zoologia se s’apre su via Aldrovandi, non lontano da via Paisiello, dominio dei Parioli e del quartiere Salario, la stessa strada che all’alba del 3 febbraio 1960 conobbe la morte di Fred Buscaglione, la sua Ford “Thunderbird” coupé modello 1959 rosa a schiantarsi…
Un volo narrativo radente sull’Urbe. Mitologia, anagrafe, catalogazione, una scia memoriale, topografia residenziale romana, puntiglio da coroner, sorta di “Guida Monaci” della città dei pittori, delle figure oscure e dei semplici astanti davanti alla fermata del 628 (per tutti, a Roma, inspiegabilmente, il “sei e ventotto”). Poi Giorgio De Chirico accanto alla Tomba di Cecilia Metella, e perfino il profilo dell’imperatore Commodo.
Un romanzo “topografico” che lascia intravedere addirittura l’ingresso, era il 4 giugno del 1944, delle truppe Alleate del generale Clark e la sua jeep, precisando che non entrarono dall’Appia, semmai dalla Casilina, costeggiando la borgata del Pigneto dirigendosi verso Porta Maggiore dov’è la Tomba del Fornaio, ciò che nel tempo sarebbe divenuto simbolo di gentrificazione cittadina; le ceneri e la poltiglia non meno memoriale del film “Accattone”, lì girato.
Un “prontuario” di storia dell’arte, del vivente e insieme una mappa di ciò che Roma è stata, dove perfino l’Hemingway, trascorso locale capitolino di via delle Coppelle figura nel racconto, insieme al ricordo dei suoi residenti notturni, l’artista Gino De Dominicis fra loro.
Diversamente da molta letteratura da “truccabimbi”, il romanzo di Nardone brilla invece come un “baedecker” storico, cronistico, esistenziale, restituendo perfino memoria del “Rugantino”, il locale di viale Trastevere, già viale del Re, dove “nasce” la dolce vita, trasfigurato poi in affollato McDonald’s e infine, adesso, agenzia di banca.
Per chi non ne fosse al corrente, anche il pittore Mario Schifano affermava che la luna non sarebbe mai stata sfiorata dal Lem dell’Apollo 11, semmai una semplice messa in scena degli studios di Hollywood.
E molte altre cose e memorabilia ancora nel nostro romanzo-faldone-museo, compresa la citazione del night “Il Pipistrello”, le sue luci non meno lunari, se non da pianeta rosso, spettrografia d’ogni possibile suggestione sessuale.
Questo di Domenico Nardone, va divorato allo stesso modo del libro ormai introvabile su Eugenio Cefis, pagine “nere” che avrebbero suggerito a Pier Paolo Pasolini il romanzo incompiuto postumo “Petrolio”. Grazie a lui, la “città”, ci appare infine svelata.

Fulvio Abbate 



mercoledì 26 maggio 2021

Salvatore Falci, "Conwith", 2019

 

SALVATORE FALCI, CONWITH 

galleria Casoli-de Luca, Roma, settembre 2019

 

Ponte Sant'Eufemia, 1999-2019

comunicato stampa

CONWITH è un gioco di parole bilingue che incarna il principio cardine della quarantennale ricerca di Falci nel campo delle arti visive: la necessità dell’altro nell’atto della creazione artistica, la con-presenza come elemento imprescindibile dell’opera d’arte.

“La sua teoria parte dal principio del non intervento diretto dell'artista nell'opera”, scrive Roberto Pinto nel 1994, nella sua introduzione all’opera dell’artista. “Studia, e mette in atto, dei progetti dove interviene solo nella fase di preparazione, in modo da non essere mai lui stesso da determinante del risultato. Questo è creato, in modo del tutto spontaneo e naturale, dalla gente comune durante lo svolgimento delle normali attività. Questo è infatti ciò che interessa all'artista: raccogliere le testimonianze del quotidiano, quei piccoli gesti apparentemente insignificanti, ma che parlano della vera natura dell'individuo, quando è libero e inconsapevole”. Per Falci è importante rendere visibile l’altro, assistere all’evento del caso, che prende vita dall’incontro indesiderato tra soggetto e oggetto. Per questo motivo, l'artista è obbligato a studiare procedimenti che, a un primo sguardo, si mostrano asettici, lontani dall’idea comune di opera d'arte. Solo in un secondo tempo, a seguito dell'intervento esterno dell’uomo, possono definirsi compiutamente Arte. Proprio questa intenzione è l’origine della ricerca condivisa con Pino Modica e Stefano Fontana, ai quali, più tardi, si aggiunge Cesare Pietroiusti, dando vita nei primi anni Ottanta, al sodalizio artistico identificato come Gruppo di Piombino. Nel 1983 progettano insieme un’opera sotto forma di indagine sull’ambiente, che analizza i rapporti tra persone e oggetti, attraverso gesti quotidiani. L’esperimento SOSTA 15 MINUTI, successivamente presentato ai Giardini della Biennale del 1984, invita i passanti a sedersi su delle sedie, nonostante queste siano al tempo stesso limite e oggetto da contemplare. Da questo momento comincia una sorta di “colloquio urbano” in cui gli artisti si immettono nel flusso della comunicazione degli abitanti della città, nei luoghi comuni di scambio sociale, registrando le risposte. Non sono i comportamenti eclatanti il perno dell’interesse di Salvatore Falci; l’artista non vuole evidenziare ciò che è straordinario, ma si concentra sull’annotazione dei comportamenti “banali”. Da questo percorso di ricerca, nel 1984 nascono gli studi sui Vetri, in cui le lastre, sovrapposte ai tavoli di uso pubblico, sono verniciate di nero e ne registrano i graffi e le usure. Nel 1986, emerge l’esigenza di introdurre nella riflessione anche gli arti inferiori: con i suoi Pavimenti, Falci non utilizza più vetro ma pedane con strati di vernice. In occasione della mostra alla galleria CASOLI • DE LUCA, l’artista ha ripensato i luoghi della sua indagine artistica, installando l’opera Pavimento Oro Liceo Lorenzo Lotto (2019) in un una scuola di Trescore e il Pavimento Argento Smerigliatura Stillegno (2019) in una fabbrica: due spazi che accolgono vite tra loro differenti e raccontano il vissuto del luogo senza volerne realizzare un recupero, cambiando il punto di vista per sperimentare nuovi esiti.

Veduta dell'istallazione

I Pavimenti sono progettati in modo da rilevare per scratching solo tracce anomale o particolarmente intese - come l’azione di strusciare, cadere o graffiare - mentre non vengono rilevate le impronte del normale camminare. Il risultato rimanda a una forma di espressionismo attivata involontariamente dal pubblico. Articolano il percorso espositivo anche le Casse di imballaggio, opere in legno, masonite e cera che costituiscono una variante dei Pavimenti: 5 elementi che nel 1988 furono utilizzati per imballare i lavori che Stefano Fontana inviò alla Biennale di Venezia. Da questa linea creativa e comportamentale, nascono i primi Letti (1988), in spugna sintetica e velluto, opere sensibili che registrano fedelmente perfino un’impronta digitale e permettono di aggiungere un’azione sopra l’altra. Installati in una discoteca, in una garçonniere e in una palestra, vengono declinati anche nella variante Puff (1989).

                                                Puff rosso, tecnica mista, 1989

Per CONWITH, l’artista ha deciso di rigenerare l’Erba del Ponte di Sant’Eufemia, un lavoro presentato alla Biennale del 1990. La rigenerazione nasce dall’esigenza di coniugare le esperienze della traccia, al di là della presenza fisica in cui permane una memoria verificabile.

Questa riflessione trae origine da Ponte di Venezia (1990), nata dal desiderio di realizzare opere capaci di visualizzare il processo della disseminazione e della dispersione. Tavole di forex con una miscela di segatura e semi, ricoprono il ponte Sant’Eufemia a Venezia per 24 ore. Il composto viene disseminato e disperso dai passanti e successivamente l’artista preleva i pannelli cosi connotati, li trasferisce in una serra e li annaffia fino a quando l’erba non cresce e non realizza una visualizzazione del vissuto trascorso.

La lunga carriera di Salvatore Falci diventa punto d’osservazione privilegiato del comportamento umano: le abitudini cambiano da luogo a luogo, da popolo a popolo. L’artista comincia così ad analizzare le mutazioni di queste abitudini comuni che presenta nella video installazione Silent Communication (1998) presente in mostra a sigillo di una ricerca silenziosa e costante.L’artista promuove da sempre incontri e seminari dove cerca di coinvolgere lo spettatore per renderlo consapevole del ruolo attivo che potrebbe avere nello sviluppo delle teorie artistiche e di conseguenza nell'evoluzione della società.


mercoledì 31 marzo 2021

Simona Antonacci, Mi sono sempre chiesta cosa facciano le opere quando vanno a dormire

Mi sono sempre chiesta cosa facciano le opere quando vanno a dormire.
di Simona Antonacci

pubblicato in catalogo della mostra Salvatore Falci, Conwith, galleria Casoli-de Luca, Roma, 2019

Il prato che ha invaso la “sala grande” della galleria Casoli De Luca a Roma, in occasione della mostra di Salvatore Falci, ci porta indietro di quasi trent’anni. È il 1990 quando l’artista dissemina segatura e semi su una lastra di forex su un ponte di Venezia per 24 ore. Il passaggio di persone e oggetti modifica, trasforma e diffonde questa miscela, che viene poi umidificata, trasferita in serra, innaffiata e riportata su una lastra. Nasce l’erba.

Realizzata in occasione della XLIV Biennale di Venezia, Aperto 90, l’opera viene esposta nella sede dell’Arsenale e poi riallestita l’anno successivo nel nuovo spazio espositivo di Domenico Nardone, la galleria Alice a via di Monserrato1.

                   Salvatore Falci, Ponte Sant'Eufemia, galleria Casoli-de Luca, Roma, 2019                                              
Ponte Sant’Eufemia è un’opera cardine della fase “piombinese” di Falci e allo stesso tempo apre, nella riproposizione nella Galleria Casoli-De Luca di Roma, nuove possibilità di senso.
In linea con i principi di base della proposta piombinese, l’opera si configura come un esperimento che presuppone un progetto, una reazione differenziata e una verifica rigorosa2. In particolare, come già nei primi lavori esposti nella Galleria Lascala di Domenico Nardone, Falci propone un arretramento dell’autore in favore di una creazione condivisa: nella negazione della propria presenza, l’artista propone una situazione-stimolo di carattere relazionale. Se nella prima fase della sua produzione (Itaj-doshin, Pavimenti, Letti, Puff) gli oggetti dislocati da Falci accolgono le tracce del corpo umano in movimento o in posizione statica, con le serie Vasche e Fiumi e con Ponte Sant’Eufemia il campo d’indagine si estende: l’attenzione si rivolge a contesti in cui l’azione dell’uomo si ibrida con quella degli elementi naturali e con quella degli altri uomini.
Traslitterando nel campo dell’arte un procedimento che rimanda al metodo sperimentale scientifico, Falci indaga i principi della dispersione e dell’entropia, cercando di contraddirli: la realtà si rivela percorsa da dinamiche invisibili di cui Falci prova a cogliere il senso ritmico e l’andamento, replicando il metodo dello scienziato nel tentativo di trovare regole nel caos dell’esistenza.
I movimenti e i gesti delle persone, così come il soffiare del vento e la pioggia, sono dunque gli “agenti” involontari che definiscono una configurazione estetica unica e irripetibile: è questa che, in un equilibrio unico di caso e caos, viene fissata nel tempo, dislocata nello spazio discorsivo del sistema dell’arte e resa potenzialmente imperitura. Un cambio di campo semantico che trasforma la natura e il valore di questa “creatura” definitivamente.
Ma poi la mostra finisce e per l’opera, per ogni opera, inizia una fase che la porta lontana dalle pareti del museo che gli hanno attribuito quel valore. Cosa accade quando l’opera entra in quel letargo – lungo trent’anni in questo caso – in cui non è allestita?
Mi sono sempre chiesta cosa facciano le opere quando vanno a dormire. Se sono ancora “vive”, se sono ancora “loro” quando stanno chiuse in deposito o in una galleria o in uno studio, quando insomma sono sottratte a quello sguardo che ha il potere di conferirgli di nuovo significato, di riattivarne il potere. Le possiamo considerare ancora opere d’arte? In questi anni quale è stata la “natura” dell’erba bruciata di Ponte Sant’Eufemia?
Per quanto riguarda tanti interventi “concettuali”, sappiamo che è il progetto a trattenere la memoria dell’opera “in potenza”, progetto che riposa nel più evocativo dei casi tra le carte dell’artista e, più frequentemente oggi, nelle cartelle di un pc. Ma mi sembra un luogo freddo in cui stare e poi nessuna matrice “fisica” dell’opera c’è. C’è la memoria del progetto, dell’idea, ma nulla che ne trattenga, potremmo dire, l’anima.
E forse anche Falci ha pensato questo quando, invece di scegliere la soluzione (forse più scontata) di lasciare solo la traccia immateriale di un progetto da ripetere occasionalmente nel tempo, ha deciso invece di bruciare i residui dell’erba e di conservarli per quasi trent’anni. Era importante, infatti, che la nuova installazione fosse prodotta proprio a partire da quell’erba sedimentata in quel momento su quel ponte di Venezia, in quanto portatrice di una “memoria” specifica: nell’erba bruciata è la traccia di ciò che è stato, il principio simbolico e fisico di una continuità nel tempo, della persistenza di una traccia mnemonica, l’engramma di un evento, potremmo dire.
E se questa scelta può sembrare secondaria, o addirittura romantica, svelando un desiderio di eternità per un intervento originariamente effimero, in realtà questo scarto si rivela cruciale e offre lo spunto per una comprensione più profonda del lavoro e del ruolo che Falci immagina per sé e per l’opera.
La possibilità di “ri-attivare” l’opera, infatti, ha a che fare non solo con gli aspetti sottesi alle pratiche del re-enactment e con il superamento di un’idea di opera sempre uguale a sé stessa: nella proposta di Falci l’aspetto rilevante è che il centro non è nel progetto, ma nell’evento. È per questo che le sue opere (così come quelle realizzate dagli altri artisti del gruppo di Piombino) sono spesso difficili da definire e inquadrare: perché scivolano via sia dalle maglie delle pratiche concettuali, che da quelle dell’arte pubblica tout court e relazionali o proto-relazionali, pur stando a contatto con tutte loro. In questo muoversi in modo non convenzionale sulla soglia dei campi e delle definizioni trovo molto di “piombinese”.
Del resto è proprio in uno spazio di frontiera che l’esperienza dei Piombinesi ha sempre agito: lontani dall’idea (peraltro predominante in quei controversi anni Ottanta in cui nasce il gruppo) di un’opera d’arte definita e chiusa, autoreferenziale; lontani dall’approccio personalistico dell’artista come “autore” e “creatore” e lontani anche da un modello organizzativo statico e gerarchico, propongono invece una interpretazione collettiva e mobile dei modelli di gruppo e di galleria (che, non a caso, tenta di andare “fuori da sé”, nello spazio del quotidiano). E, soprattutto, testardamente intenzionati a situare la pratica artistica in uno spazio liminale e anarchico di “non piena consapevolezza”, di ambiguità dell’intervento, che è definito infatti subliminale, perché finalizzato a determinare una reazione spontanea e non convenzionale.
Oltre a tutto questo Ponte Sant’Eufemia nella sua versione del 2019 offre una ulteriore indicazione sulla figura dell’artista: non solo attivatore ma anche e soprattutto custode. C’è qualcosa di molto intimo nell’atto di raccogliere e preservare le tracce di quell’evento di trent’anni fa, che avvicina la figura dell’artista più a quella del curatore che a quella del creatore. Che in fondo mi fa pensare a quella di un padre affettuoso che rimbocca le coperte all’opera-evento per custodirla nel tempo. Anche quando dorme.


Note:

1 Salvatore Falci. Ponte Sant'Eufemia, aprile 1991. La galleria Alice viene aperta dopo l’esperienza milanese in cui il gruppo di Piombino collabora con il gallerista Sergio Casoli.

2 «Il nocciolo della teoria che andavo elaborando verteva sulla possibilità di produrre un’arte sperimentale, la cui efficacia fosse cioè verificabile, analogamente a quanto avviene per le ipotesi scientifiche, attraverso specifiche procedure» D. Nardone in Ritorno a Piombino. Salvatore Falci, Stefano Fontana, Pino Modica, Domenico Nardone, Cesare Pietroiusti, a cura di Domenico Nardone, catalogo della mostra presso galleria Primo Piano, gennaio-febbraio 1999, Roma, pag. 4.


venerdì 26 marzo 2021

In morte di Massimo Trotta


Il 25 marzo è morto di covid Massimo Trotta. Conobbi Massimo sul finire degli anni '80, quando, assieme a Pierfrancesco Pompei e Marco Rossi Lecce, stava per aprire la galleria “Il Campo”. Iniziammo quasi da subito una frequentazione quotidiana – andavamo a pranzare da Armando, vicino a piazza del Pantheon dove si trovava la loro galleria – e Massimo si appassionò entusiasticamente al lavoro del gruppo di Piombino che volle invitare al completo nella collettiva d'apertura della galleria. La sua ancorché breve esperienza di gallerista (conclusasi nel 1992) rimase da quel momento sempre fortemente legata al Gruppo di Piombino nell'ottica militante dei nostri “anni buoni”. Fu tra gli organizzatori della fondamentale mostra “Storie” (1991) e ospitò nella sua galleria le mostre personali di Pino Modica (Buono di prenotazione d'acquisto, 1992) ed Henry Bond (1992). Con lui se ne va un amico sincero con cui ho condiviso le battaglie e gli anni migliori della mia vita. Che la terra ti sia lieve, Massimo.

lunedì 15 marzo 2021

Giulia de Santis, Il Gruppo di Piombino e l’arte relazionale dagli anni sessanta ad oggi, tesi di diploma, Accademia Albertina di Belle Arti Torino, 2021.

Giulia de Santis, Il Gruppo di Piombino e l’arte relazionale dagli anni sessanta ad oggi, tesi di diploma, Accademia Albertina di Belle Arti, Torino, 2021.

                                                                  Introduzione 

Con l’elaborazione della tesi dal titolo Il Gruppo di Piombino e l’arte relazionale dagli anni sessanta ad oggi si è voluto esaminare, approfondire e valorizzare l’esperienza del Gruppo dalla metà degli anni Ottanta fino agli inizi anni Novanta, permettendomi di ripensare a come sono riusciti, in maniera soddisfacente, a ragionare sui problemi legati alla realtà che li circondava. L’esperienza piombinese fu il risultato della convergenza di due contesti operativi: il Gruppo 5 a Piombino e il critico d’arte Domenico Nardone a Roma, affacciatosi dapprima al Centro di Studi Jartrakor, fondato da Sergio Lombardo, per poi - necessitando di portare la sperimentazione artistica fuori dai luoghi deputati all’arte, in spazi in cui le convenzioni d’uso e di contemplazione stereotipata dell’oggetto non possano inibire i comportamenti individuali – allontanarsi dal Gruppo di Jartrakor e fondare la galleria Lascala a Roma nel 1983. Nell’elaborato di tesi si vuole inoltre ricostruire un ante e un post Gruppo di Piombino, analizzando gli esordi dell’arte pubblica in Italia nei decenni Sessanta e Settanta con i modelli delle prime mostre e happening nello spazio urbano, come Parole sui muri (1967-1968), Arte Povera + azioni Povere (1968), Al di là della pittura (1969), Campo urbano. Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana (1969) ed infine Volterra ’73 (1973). Ho trattato delle posizioni militanti tra arte e politica che animarono gli anni Settanta e della stagione dei collettivi, tutti formatici per condivisione di ideali politici: Il Collettivo Autonomo di Porta Ticinese, Gli Ambulanti, Il Gruppo Salerno 75 e il Laboratorio di Comunicazione Militante. Questi risultarono i gruppi più attivi, la cui volontà comune fu di riesaminare le logiche dell’autorialità, di dare sostanza alla parola società, di estendere la creatività ad una collettività chiaramente identificata nei soggetti sociali, di criticare la cultura istituzionale e di inventarsi luoghi alternativi di produzione (1). Dall’esperienza di Maria Lai ad Ulassai nel 1981 con Legarsi alla montagna venne rimesso in gioco l’assunto del coinvolgimento attivo di un pubblico percepito come “soggetto”, dopo la transizione spartiacque incarnata dalla crisi di ideologie e dai vari ritorni alla pittura ed al privato (2); compaiono riscritture dei nessi tra artista, pubblico e contesti territoriali. Queste esperienze “relazionali” – di cui fanno parte la sopracitata Maria Lai, il Gruppo di Piombino e Wurmkos - possono essere considerate dei “ponti” che traghettano dagli anni Settanta agli anni Novanta, nei quali avviene la diffusione di pratiche relazionali ed urbane, con personalità come Umbaca, Progetto Casina, Premiata Ditta, Artway of Thinking, Emilio Fantin, Eva Marisaldi, Cesare Viel, Marco Vaglieri, Annalisa Cattani, Marianne Heier, Nicola Pellegrini, Ottonella Mocellin, il gruppo Stalker, la curatela del collettivo a.titolo e molti altri. Si ridesta l’interesse per lo spazio cittadino in concomitanza con i cambiamenti sociopolitici su scala nazionale ed internazionale e si ritrovano affinità e discontinuità con le esperienze degli anni Sessanta e Settanta. L’elaborazione arriva fino agli anni più recenti in cui vi è un “ritorno” di azioni partecipative ed urbane (3). Ho voluto procedere per ordine cronologico per poter osservare i mutamenti in base alle esigenze storiche, attraverso i passaggi generazionali degli artisti, focalizzandomi su alcuni casi studio scelti in base alla loro rilevanza storica. Ho reperito diverso materiale fotografico messo a disposizione da diversi autori citati nell’elaborato, ringraziando in particolar modo Salvatore Falci, Stefano Fontana, Pino Modica, Cesare Pietroiusti e Domenico Nardone nella ricostruzione della loro esperienza piombinese. 

Note
(1) Alessandra Pioselli, L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 ad oggi, Johan & Levi editore, 2015, p 59
(2) Alessandra Pioselli, Arte e scena urbana. Modelli di intervento e politiche culturali pubbliche in Italia tra il 1968 e il 1981, in L’arte pubblica nello spazio urbano, a cura di Carlo Birrozzi e Martina Pugliese, Bruno Mondadori, 2007, p.31 
(3) Alessandra Pioselli, L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 ad oggi, Johan & Levi editore, 2015

                                                 SOMMARIO

INTRODUZIONE..........................................................................4

CAPITOLO I...................................................................................7

1.2 Modelli di mostre e di happening nello spazio urbano...............10

1.3 La militanza tra arte e politica: la stagione dei collettivi............23

CAPITOLO II..................................................................................37

2.2 Non c’è arte senza politica: Maria Lai, Legarsi alla montagna..39

2.3 Le esperienze del Gruppo di Piombino.......................................44

CAPITOLO III................................................................................81

3.2 Gli esordi di Wurmkos................................................................82

3.3 Relazioni, deambulazioni ed identità nella città postindustriale.85

CONCLUSIONE.............................................................................112

BIBLIOGRAFIA.............................................................................114

SITOGRAFIA..................................................................................116

APPENDICE....................................................................................117