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mercoledì 31 marzo 2021

Simona Antonacci, Mi sono sempre chiesta cosa facciano le opere quando vanno a dormire

Mi sono sempre chiesta cosa facciano le opere quando vanno a dormire.
di Simona Antonacci

pubblicato in catalogo della mostra Salvatore Falci, Conwith, galleria Casoli-de Luca, Roma, 2019

Il prato che ha invaso la “sala grande” della galleria Casoli De Luca a Roma, in occasione della mostra di Salvatore Falci, ci porta indietro di quasi trent’anni. È il 1990 quando l’artista dissemina segatura e semi su una lastra di forex su un ponte di Venezia per 24 ore. Il passaggio di persone e oggetti modifica, trasforma e diffonde questa miscela, che viene poi umidificata, trasferita in serra, innaffiata e riportata su una lastra. Nasce l’erba.

Realizzata in occasione della XLIV Biennale di Venezia, Aperto 90, l’opera viene esposta nella sede dell’Arsenale e poi riallestita l’anno successivo nel nuovo spazio espositivo di Domenico Nardone, la galleria Alice a via di Monserrato1.

                   Salvatore Falci, Ponte Sant'Eufemia, galleria Casoli-de Luca, Roma, 2019                                              
Ponte Sant’Eufemia è un’opera cardine della fase “piombinese” di Falci e allo stesso tempo apre, nella riproposizione nella Galleria Casoli-De Luca di Roma, nuove possibilità di senso.
In linea con i principi di base della proposta piombinese, l’opera si configura come un esperimento che presuppone un progetto, una reazione differenziata e una verifica rigorosa2. In particolare, come già nei primi lavori esposti nella Galleria Lascala di Domenico Nardone, Falci propone un arretramento dell’autore in favore di una creazione condivisa: nella negazione della propria presenza, l’artista propone una situazione-stimolo di carattere relazionale. Se nella prima fase della sua produzione (Itaj-doshin, Pavimenti, Letti, Puff) gli oggetti dislocati da Falci accolgono le tracce del corpo umano in movimento o in posizione statica, con le serie Vasche e Fiumi e con Ponte Sant’Eufemia il campo d’indagine si estende: l’attenzione si rivolge a contesti in cui l’azione dell’uomo si ibrida con quella degli elementi naturali e con quella degli altri uomini.
Traslitterando nel campo dell’arte un procedimento che rimanda al metodo sperimentale scientifico, Falci indaga i principi della dispersione e dell’entropia, cercando di contraddirli: la realtà si rivela percorsa da dinamiche invisibili di cui Falci prova a cogliere il senso ritmico e l’andamento, replicando il metodo dello scienziato nel tentativo di trovare regole nel caos dell’esistenza.
I movimenti e i gesti delle persone, così come il soffiare del vento e la pioggia, sono dunque gli “agenti” involontari che definiscono una configurazione estetica unica e irripetibile: è questa che, in un equilibrio unico di caso e caos, viene fissata nel tempo, dislocata nello spazio discorsivo del sistema dell’arte e resa potenzialmente imperitura. Un cambio di campo semantico che trasforma la natura e il valore di questa “creatura” definitivamente.
Ma poi la mostra finisce e per l’opera, per ogni opera, inizia una fase che la porta lontana dalle pareti del museo che gli hanno attribuito quel valore. Cosa accade quando l’opera entra in quel letargo – lungo trent’anni in questo caso – in cui non è allestita?
Mi sono sempre chiesta cosa facciano le opere quando vanno a dormire. Se sono ancora “vive”, se sono ancora “loro” quando stanno chiuse in deposito o in una galleria o in uno studio, quando insomma sono sottratte a quello sguardo che ha il potere di conferirgli di nuovo significato, di riattivarne il potere. Le possiamo considerare ancora opere d’arte? In questi anni quale è stata la “natura” dell’erba bruciata di Ponte Sant’Eufemia?
Per quanto riguarda tanti interventi “concettuali”, sappiamo che è il progetto a trattenere la memoria dell’opera “in potenza”, progetto che riposa nel più evocativo dei casi tra le carte dell’artista e, più frequentemente oggi, nelle cartelle di un pc. Ma mi sembra un luogo freddo in cui stare e poi nessuna matrice “fisica” dell’opera c’è. C’è la memoria del progetto, dell’idea, ma nulla che ne trattenga, potremmo dire, l’anima.
E forse anche Falci ha pensato questo quando, invece di scegliere la soluzione (forse più scontata) di lasciare solo la traccia immateriale di un progetto da ripetere occasionalmente nel tempo, ha deciso invece di bruciare i residui dell’erba e di conservarli per quasi trent’anni. Era importante, infatti, che la nuova installazione fosse prodotta proprio a partire da quell’erba sedimentata in quel momento su quel ponte di Venezia, in quanto portatrice di una “memoria” specifica: nell’erba bruciata è la traccia di ciò che è stato, il principio simbolico e fisico di una continuità nel tempo, della persistenza di una traccia mnemonica, l’engramma di un evento, potremmo dire.
E se questa scelta può sembrare secondaria, o addirittura romantica, svelando un desiderio di eternità per un intervento originariamente effimero, in realtà questo scarto si rivela cruciale e offre lo spunto per una comprensione più profonda del lavoro e del ruolo che Falci immagina per sé e per l’opera.
La possibilità di “ri-attivare” l’opera, infatti, ha a che fare non solo con gli aspetti sottesi alle pratiche del re-enactment e con il superamento di un’idea di opera sempre uguale a sé stessa: nella proposta di Falci l’aspetto rilevante è che il centro non è nel progetto, ma nell’evento. È per questo che le sue opere (così come quelle realizzate dagli altri artisti del gruppo di Piombino) sono spesso difficili da definire e inquadrare: perché scivolano via sia dalle maglie delle pratiche concettuali, che da quelle dell’arte pubblica tout court e relazionali o proto-relazionali, pur stando a contatto con tutte loro. In questo muoversi in modo non convenzionale sulla soglia dei campi e delle definizioni trovo molto di “piombinese”.
Del resto è proprio in uno spazio di frontiera che l’esperienza dei Piombinesi ha sempre agito: lontani dall’idea (peraltro predominante in quei controversi anni Ottanta in cui nasce il gruppo) di un’opera d’arte definita e chiusa, autoreferenziale; lontani dall’approccio personalistico dell’artista come “autore” e “creatore” e lontani anche da un modello organizzativo statico e gerarchico, propongono invece una interpretazione collettiva e mobile dei modelli di gruppo e di galleria (che, non a caso, tenta di andare “fuori da sé”, nello spazio del quotidiano). E, soprattutto, testardamente intenzionati a situare la pratica artistica in uno spazio liminale e anarchico di “non piena consapevolezza”, di ambiguità dell’intervento, che è definito infatti subliminale, perché finalizzato a determinare una reazione spontanea e non convenzionale.
Oltre a tutto questo Ponte Sant’Eufemia nella sua versione del 2019 offre una ulteriore indicazione sulla figura dell’artista: non solo attivatore ma anche e soprattutto custode. C’è qualcosa di molto intimo nell’atto di raccogliere e preservare le tracce di quell’evento di trent’anni fa, che avvicina la figura dell’artista più a quella del curatore che a quella del creatore. Che in fondo mi fa pensare a quella di un padre affettuoso che rimbocca le coperte all’opera-evento per custodirla nel tempo. Anche quando dorme.


Note:

1 Salvatore Falci. Ponte Sant'Eufemia, aprile 1991. La galleria Alice viene aperta dopo l’esperienza milanese in cui il gruppo di Piombino collabora con il gallerista Sergio Casoli.

2 «Il nocciolo della teoria che andavo elaborando verteva sulla possibilità di produrre un’arte sperimentale, la cui efficacia fosse cioè verificabile, analogamente a quanto avviene per le ipotesi scientifiche, attraverso specifiche procedure» D. Nardone in Ritorno a Piombino. Salvatore Falci, Stefano Fontana, Pino Modica, Domenico Nardone, Cesare Pietroiusti, a cura di Domenico Nardone, catalogo della mostra presso galleria Primo Piano, gennaio-febbraio 1999, Roma, pag. 4.


venerdì 26 marzo 2021

In morte di Massimo Trotta


Il 25 marzo è morto di covid Massimo Trotta. Conobbi Massimo sul finire degli anni '80, quando, assieme a Pierfrancesco Pompei e Marco Rossi Lecce, stava per aprire la galleria “Il Campo”. Iniziammo quasi da subito una frequentazione quotidiana – andavamo a pranzare da Armando, vicino a piazza del Pantheon dove si trovava la loro galleria – e Massimo si appassionò entusiasticamente al lavoro del gruppo di Piombino che volle invitare al completo nella collettiva d'apertura della galleria. La sua ancorché breve esperienza di gallerista (conclusasi nel 1992) rimase da quel momento sempre fortemente legata al Gruppo di Piombino nell'ottica militante dei nostri “anni buoni”. Fu tra gli organizzatori della fondamentale mostra “Storie” (1991) e ospitò nella sua galleria le mostre personali di Pino Modica (Buono di prenotazione d'acquisto, 1992) ed Henry Bond (1992). Con lui se ne va un amico sincero con cui ho condiviso le battaglie e gli anni migliori della mia vita. Che la terra ti sia lieve, Massimo.

lunedì 15 marzo 2021

Giulia de Santis, Il Gruppo di Piombino e l’arte relazionale dagli anni sessanta ad oggi, tesi di diploma, Accademia Albertina di Belle Arti Torino, 2021.

Giulia de Santis, Il Gruppo di Piombino e l’arte relazionale dagli anni sessanta ad oggi, tesi di diploma, Accademia Albertina di Belle Arti, Torino, 2021.

                                                                  Introduzione 

Con l’elaborazione della tesi dal titolo Il Gruppo di Piombino e l’arte relazionale dagli anni sessanta ad oggi si è voluto esaminare, approfondire e valorizzare l’esperienza del Gruppo dalla metà degli anni Ottanta fino agli inizi anni Novanta, permettendomi di ripensare a come sono riusciti, in maniera soddisfacente, a ragionare sui problemi legati alla realtà che li circondava. L’esperienza piombinese fu il risultato della convergenza di due contesti operativi: il Gruppo 5 a Piombino e il critico d’arte Domenico Nardone a Roma, affacciatosi dapprima al Centro di Studi Jartrakor, fondato da Sergio Lombardo, per poi - necessitando di portare la sperimentazione artistica fuori dai luoghi deputati all’arte, in spazi in cui le convenzioni d’uso e di contemplazione stereotipata dell’oggetto non possano inibire i comportamenti individuali – allontanarsi dal Gruppo di Jartrakor e fondare la galleria Lascala a Roma nel 1983. Nell’elaborato di tesi si vuole inoltre ricostruire un ante e un post Gruppo di Piombino, analizzando gli esordi dell’arte pubblica in Italia nei decenni Sessanta e Settanta con i modelli delle prime mostre e happening nello spazio urbano, come Parole sui muri (1967-1968), Arte Povera + azioni Povere (1968), Al di là della pittura (1969), Campo urbano. Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana (1969) ed infine Volterra ’73 (1973). Ho trattato delle posizioni militanti tra arte e politica che animarono gli anni Settanta e della stagione dei collettivi, tutti formatici per condivisione di ideali politici: Il Collettivo Autonomo di Porta Ticinese, Gli Ambulanti, Il Gruppo Salerno 75 e il Laboratorio di Comunicazione Militante. Questi risultarono i gruppi più attivi, la cui volontà comune fu di riesaminare le logiche dell’autorialità, di dare sostanza alla parola società, di estendere la creatività ad una collettività chiaramente identificata nei soggetti sociali, di criticare la cultura istituzionale e di inventarsi luoghi alternativi di produzione (1). Dall’esperienza di Maria Lai ad Ulassai nel 1981 con Legarsi alla montagna venne rimesso in gioco l’assunto del coinvolgimento attivo di un pubblico percepito come “soggetto”, dopo la transizione spartiacque incarnata dalla crisi di ideologie e dai vari ritorni alla pittura ed al privato (2); compaiono riscritture dei nessi tra artista, pubblico e contesti territoriali. Queste esperienze “relazionali” – di cui fanno parte la sopracitata Maria Lai, il Gruppo di Piombino e Wurmkos - possono essere considerate dei “ponti” che traghettano dagli anni Settanta agli anni Novanta, nei quali avviene la diffusione di pratiche relazionali ed urbane, con personalità come Umbaca, Progetto Casina, Premiata Ditta, Artway of Thinking, Emilio Fantin, Eva Marisaldi, Cesare Viel, Marco Vaglieri, Annalisa Cattani, Marianne Heier, Nicola Pellegrini, Ottonella Mocellin, il gruppo Stalker, la curatela del collettivo a.titolo e molti altri. Si ridesta l’interesse per lo spazio cittadino in concomitanza con i cambiamenti sociopolitici su scala nazionale ed internazionale e si ritrovano affinità e discontinuità con le esperienze degli anni Sessanta e Settanta. L’elaborazione arriva fino agli anni più recenti in cui vi è un “ritorno” di azioni partecipative ed urbane (3). Ho voluto procedere per ordine cronologico per poter osservare i mutamenti in base alle esigenze storiche, attraverso i passaggi generazionali degli artisti, focalizzandomi su alcuni casi studio scelti in base alla loro rilevanza storica. Ho reperito diverso materiale fotografico messo a disposizione da diversi autori citati nell’elaborato, ringraziando in particolar modo Salvatore Falci, Stefano Fontana, Pino Modica, Cesare Pietroiusti e Domenico Nardone nella ricostruzione della loro esperienza piombinese. 

Note
(1) Alessandra Pioselli, L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 ad oggi, Johan & Levi editore, 2015, p 59
(2) Alessandra Pioselli, Arte e scena urbana. Modelli di intervento e politiche culturali pubbliche in Italia tra il 1968 e il 1981, in L’arte pubblica nello spazio urbano, a cura di Carlo Birrozzi e Martina Pugliese, Bruno Mondadori, 2007, p.31 
(3) Alessandra Pioselli, L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 ad oggi, Johan & Levi editore, 2015

                                                 SOMMARIO

INTRODUZIONE..........................................................................4

CAPITOLO I...................................................................................7

1.2 Modelli di mostre e di happening nello spazio urbano...............10

1.3 La militanza tra arte e politica: la stagione dei collettivi............23

CAPITOLO II..................................................................................37

2.2 Non c’è arte senza politica: Maria Lai, Legarsi alla montagna..39

2.3 Le esperienze del Gruppo di Piombino.......................................44

CAPITOLO III................................................................................81

3.2 Gli esordi di Wurmkos................................................................82

3.3 Relazioni, deambulazioni ed identità nella città postindustriale.85

CONCLUSIONE.............................................................................112

BIBLIOGRAFIA.............................................................................114

SITOGRAFIA..................................................................................116

APPENDICE....................................................................................117