Da piazza del Popolo a Piombino. Passando per via dei Pianellari.
di Domenico Nardone
relazione per il convegno
Underground eventualista. La ricerca estetica in Italia 1972-2019, a
cura di Miriam Mirolla, MACRO-Auditorium, Roma, gennaio 2019
Sono arrivato a Jartrakor –
il centro studi fondato da Sergio Lombardo nella seconda metà degli
anni '70 che aveva sede in via dei Pianellari 20– nel 1978, quando
avevo da poco compiuto i vent'anni. E l'ho frequentato assiduamente
per circa quattro anni, più o meno fino al 1982. Come Cesare
Pietroiusti e Anna Homberg, che comunque avevano qualche anno più di
me, ero iscritto alla Facoltà di Medicina.
Sergio Lombardo aveva
vissuto da protagonista il cosiddetto clima felice degli anni
Sessanta, era stato uno degli artisti di punta della cosiddetta
scuola di Piazza del Popolo, di quella strabiliante esperienza, al
tempo stesso tragica ed eroica, che a tutt'oggi considero l'ultima
grande stagione della pittura e che conobbi allora attraverso la sua
mediazione.
L'avventura degli artisti di
Piazza del Popolo, che inizia sul finire degli anni Cinquanta ed è
chiusa dall'irrompere del '68, è l'esperienza a noi più vicina nel
tempo in cui possiamo riconoscere i tratti fondamentali di ciò che
significa in arte essere avanguardia.
Il clima felice degli
anni Sessanta è il titolo di un quadro di Tano Festa – una
superficie bianca ripartita in sei rettangoli uguali da profilature
nere, al centro dei quali campeggiano i nomi di Schifano, Angeli,
Castellani, Festa, Manzoni e Lo Savio – che peraltro, per la data
in cui è realizzato (1969) e per l'aspetto formale che ricorda
vagamente gli annunci funebri, suona un po' come una campana a morto
per la scuola di Piazza del Popolo. All'origine di un'avanguardia c'è
infatti un clima, una situazione, il formarsi di
un'aggregazione spontanea che da luogo, per usare un termine più
moderno, ad una comunità del sentire.
Quando un sistema culturale
procede verso il suo punto di catastrofe, in cui si rompe e si
dissolve drammaticamente un paradigma di convenzioni accettate, e
faticosamente, per tentativi ed errori, si avvia la gestazione di un
nuovo paradigma, lì sono il tempo ed il luogo eccellenti
dell'avanguardia, nell'accelerazione del processo di dissoluzione del
vecchio e nella levazione del nuovo.
Gli artisti vivono e
lavorano a stretto contatto di gomito, si annusano, si studiano, si
stanno addosso, l'idea che vediamo appena delinearsi nel quadro dell'
uno oggi, è immediatamente sviluppata e rilanciata l'indomani dal
quadro di un altro.
Sergio Lombardo, Piazza Navona, smalto su tela, cm.180x230, 1963
Così è ad esempio per le sagome, le linee di
profilo di volti, corpi e oggetti che si trasferiscono dai quadri di
Lombardo a quelli di Tacchi, da quelli di Mambor a quelli di Schifano
e Ettore Innocente fino alle sagome tridimensionali di Pascali e
Ceroli, frantumando il paradigma rappresentato dalla dialettica
astratto/figurativo – ormai divenuto sterile e stantio – in una
sintesi geniale, giacchè la sagoma è al tempo stesso figura,
giacchè rimanda ancora ad un determinato soggetto/oggetto reale, e
rappresentazione astratta di questo soggetto/oggetto, giacchè ne
mostra soltanto i caratteri essenziali.
Cesare Tacchi, Renato e poltrona, tecnica mista su tela imbottita, cm.160x140x8, 1965
Renato Mambor, 40 Uomini Timbro di Profilo, tecnica mista su cartoncino, 70x100, 1963
Franco Angeli, Corteo, smalto su carta intelata, cm.300x212, 1968
Mario Schifano, Futurismo rivisitato, smalto e spray su tela, 1965
Ettore Innocente, Slalom, materiali vari, cm.180x190x30, 1966
Il "clima felice"
di cui parla Tano Festa, quello che all'epoca noi chiamavamo lo
"stato nascente di un movimento" (1), l'essere avanguardia
è quindi uno stato di grazia al cui formarsi concorrono una serie di
personalità disparate, le cui esistenze si trovano ad essere a
stretto contatto nel momento in cui un sistema di convenzioni, un
paradigma culturale - come ho detto prima - si avvicina al suo punto
di catastrofe. Ed è in questo momento, quando le regole
precedentemente vigenti si dissolvono, che alla creatività si aprono
spazi impraticati e sterminati, è in questa temperie segnata da un
procedere quasi a tentoni, per tentativi e errori, senza più punti
di ancoraggio che chiunque - anche il meno dotato – venga a
trovarsi all'interno di questa sorta di cerchio magico, chiunque,
come era solito dire Lombardo, può fare un quadro.
Io credo che la Teoria
dell'Evento e dell'Arte Eventuale, e più in generale un approccio al
problema dell'arte ed una sensibilità eventualista, che presero
forma e si svilupparono in quegli anni sulle pagine della Rivista di
psicologia dell'Arte, derivino ab origine da un ripensamento e
da un'analisi approfondita di quella che era stata l'esperienza di
piazza del Popolo che. Nelle lunghe serate a Jartrakor discutevamo
infatti prevalentemente del lavoro di questi artisti, mentre ad
esempio il lavoro di un artista come Boetti, che sicuramente è stato
importante per la mia elaborazione teorica successiva al distacco dal
gruppo di Jartrakor, l'ho scoperto soltanto successivamente,
probabilmente proprio perchè questo artista non fece parte di
quell'esperienza.
E' infatti soltanto in un
mio scritto del 2002 – il testo di presentazione della mostra di
Sergio Lombardo "dai Monocromi ai Gesti Tipici" allo Studio
Soligo di Roma – che osservo come l'impianto teorico e metodologico
dei Monocromi di Lombardo presenti delle forti affinità con i
lavori a biro di Boetti.
L'impianto teorico dei
Monocromi che Sergio Lombardo realizza alla fine degli anni '50,
rispondeva all'esigenza, citando le sue stesse parole, di
eliminare dal quadro ogni abilità tecnica sostituendola con
l'esecuzione di un compito non qualitativamente rilevante (verniciare
una superficie data con colori dati), sostituendo ogni fantasia con
l'uso logico di elementi dati (composizioni uniformi, colori di
campionario, regole esecutive, etc.).
Sergio Lombardo, Azzurro 81, collage e smalto su tela, cm.200x200, 1960
In pratica l'artista
ritagliava una serie di foglietti di carta quadrangolari dello stesso
formato che disponeva ad intervalli regolari a ricoprire la
superficie, che poi verniciava nella maniera più uniforme possibile.
L'esigenza d'impersonalità
nella realizzazione di un'opera che si avverte nel progetto di
Lombardo, rappresenta peraltro un istanza fortemente sentita da tutti
gli artisti di piazza del Popolo: levare l'io dal quadro,
scriverà esplicitamente Renato Mambor. Il soggetto, cacciato dalla
porta, rientra però di soppiatto dalla finestra e trova espressione
negli scarti minimi e nelle irregolarità più o meno appariscenti
che l'esecuzione presenta - in maniera non volontaria e fuori dal
controllo della coscienza - rispetto al progetto: impreviste
scolature di colore, irregolarità di contorno, errori nella
profilatura dei foglietti di carta.
Alighiero Boetti, Mettere al mondo il mondo, penna biro su carta intelata, cm.160x147, 1975
Le cosiddette "biro"
che Boetti comincia a realizzare a partire dai primi anni '70, sono
invece opere composte dalla giustapposizione di diversi elementi
cartacei dello stesso formato che l'artista affida ognuno ad un
diverso esecutore con il compito di campirli uniformemente con la
penna a biro.
Ogni foglio di carta
contiene delle parti che non devono essere ricoperte.
Al termine dell'operazione,
a sinistra le parti non campite delineano le lettere dell'alfabeto
disposte lungo una verticale; procedendo verso destra, nel senso
della lettura, compaiono delle virgole che corrispondono alle lettere
dell'alfabeto allineate sulla sinistra e che compongono in questo
modo una frase.
Una delle prime frasi fatte
realizzare da Boetti secondo questa procedura è "mettere al
mondo il mondo", composta da otto fogli 70x100 la cui
realizzazione venne affidata dall'artista alternando un esecutore di
sesso maschile ad uno di sesso femminile.
La forma e la struttura più
adatte a coprire uniformemente un'ampia superficie consistono in un
fitto e coprente tratteggio verticale, dall'alto in basso, nondimeno,
pur mantenendosi all'interno della regola esecutiva stabilita
dall'artista, spiccano ed emergono, non solo le differenze di
tratteggio tra un esecutore ed un altro, ma anche quelle realizzate
dalla stessa mano in giorni diversi. Il processo di produzione messo
a punto da Boetti per la realizzazione di questi lavori a biro,
funziona quindi anche come una sorta di sismografo capace di rilevare
i diversi stati d'animo di un singolo esecutore che si ritrovano ad
essere espressi dalle differenze ed irregolarità del tracciato di
campitura del foglio di carta. Come nei Monocromi di Lombardo,
l'esecutore/realizzatore si trova ad esprimere la sua individualità
malgré lui-meme, in tutte quelle alterazioni, involontarie e
più o meno vistosamente percettibili, che subentrano nella
ripetizione reiterata dello stesso gesto in funzione di alcune
variabili, alcune delle quali – come la noia o il calo di
attenzione – prevedibili, altre – come il trillo del telefono che
mi fa sobbalzare all'improvviso – assolutamente no.
E proprio l'insieme di
queste tracce minimali di sè che il soggetto dissemina
involontariamente ed inconsapevolmente durante l'esecuzione di un
compito, di un gesto o di un'azione ordinaria che si ripetono
apparentemente identici a se stessi nella routine della vita
quotidiana e le costellazioni di segni che queste tracce generano,
diventeranno il campo d'azione privilegiato della ricerca del Gruppo
di Piombino.
Rispetto a quanto osservato
nei lavori di Lombardo e Boetti – che ho citato come antecedenti e
punti di partenza necessari in quanto a mio avviso particolarmente
rigorosi ma ovviamente un'attenzione per il fenomeno del cosiddetto
"espressionismo involontario" si riscontra anche nel lavoro
di altri artisti – la teoria e la pratica dell'arte del Gruppo di
Piombino introducono come istanza primaria la necessità di abbassare
il più possibile il livello di consapevolezza dei soggetti implicati
nei processi di realizzazione/esecuzione, questo al fine di meglio
garantire l'autenticità e l'involontarietà del loro comportamento.
E' peraltro vero che già in
Boetti, nel passaggio dai lavori a biro ai ricami, si assiste ad un
abbassamento del livello di consapevolezza dell'esecutore. Le
ricamatrici di Kabul e di Peshawar a cui l'artista affida il compito
di tessere al telaio gli arazzi da lui progettati, infatti, sono
delle semplici lavoratrici salariate che non hanno alcuna coscienza
di star confezionando un oggetto che sarà poi distribuito e
mercificato come arte, addirittura spesso neppure sono in grado di
leggere la frase che ricamano a telaio.
Osserviamo adesso alcuni
esempi della metodologia adottata dagli artisti del Gruppo di
Piombino.
Fig.1 Salvatore Falci, ATM, cera e smalto su masonite, cm. 140x200, 1987
Questa fotografia riproduce
un "pavimento" di Salvatore Falci (fig.1). L'artista aveva
dipinto uniformemente di nero delle lastre di masonite bianca che,
nel caso in oggetto, aveva disposto sotto una pensilina dove la gente
attendeva l'autobus, sì che si confondessero con una normale
pavimentazione a linoleum (fig.1a).
Fig. 1a
I segni che vedete nel quadro
sono quindi il prodotto di una giornata di calpestio da parte di
persone del tutto inconsapevoli di partecipare alla realizzazione di
un quadro.
Fig.3 Pino Modica, Vetreria Petri, plexiglas e impianto luci, cm.124x144, 2004
Questo è invece un "piano
di lavoro" di Pino Modica (fig.3), realizzato con un metodo
analogo. La superficie di plexiglas è infatti stata sovrapposta al
normale piano di lavoro di una vetreria ed è stato ritirato al
termine della giornata. I segni che si vedono sul piano, soltanto
accentuati dall'impianto di retroilluminazione con cui l'artista l'ha
successivamente impaginato, sono frutto dell'ordinaria attività
degli artigiani che vi hanno lavorato sopra.
Fig.4
Qui abbiamo una "prova
resistenza" di Stefano Fontana (fig.4). All'interno di queste
strutture si osserva teso uno scampolo di tessuto racchiuso tra due
lastre di plexiglass traforate. Al di sotto si nota un cassetto che
contiene una serie di asticelle di rame. Cinque di queste strutture –
realizzate con colori di tessuto diversi (giallo, rosso, blu, bianco
e nero) – dono state collocate nel reparto tessuti di una grande
magazzino. La clientela era indotta a credere che si trattasse di un
modo per testare la resistenza dei tessuti - che erano regolarmente
in vendita - mediante l'introduzione delle barrette nei fori.
Fig.5 Stefano Fontana, Prova resistenza, materiali vari, dimensioni variabili, 1988
Nella
fig.5, le cinque strutture come vennero esposte da Fontana nella
Biennale del 1988, dopo che l'artista le aveva bloccate nella
configurazione assunta dopo una giornata d'interazione con la
clientela del grande magazzino.
Fig.6 Cesare Pietroiusti, Hackerbrau, stampa cibachrome su compensato, diam. cm.125, 1988
Questo è infine uno dei
photo-object realizzati all'epoca da Cesare Pietroiusti
(Fig.6). Si tratta di un sottobicchiere ritrovato dall'artista e
riprodotto senza apportarvi alcuna modifica su scala gigante (125 cm.
di diametro).
Volevo adesso prendere in
considerazione un punto che mi riguarda più da vicino. Vale a dire
l'accezione che ho dato al ruolo di critico militante e il modo in
cui l'ho interpretato.
In apertura del catalogo
della prima mostra del gruppo di Piombino – galleria Lascala, Roma,
1984 – dove usualmente è collocato il testo di presentazione
scritto da un critico, si legge questo brevissimo testo a firma del
sottoscritto e di Daniela De Dominicis:
"Da tempo abbiamo
trasferito il nostro lavoro di critici militanti all'interno del
processo di produzione dell'arte, anzichè relegarlo in un tempo ad
essa postumo. Le nostre argomentazioni teoriche e critiche danno e
prendono vita dalla pratica sperimentale da cui a volte, non possono
essere estrapolate. Per questo abbiamo rinunciato a scrivere una
'presentazione critica' che non avrebbe avuto ai nostri occhi alcun
significato."
Con questa dichiarazione
volevamo esplicitare il fatto che, nel caso di un'arte sperimentale
come quella con cui avevamo a che fare, il lavoro del critico
consisteva soprattutto nella verifica della correttezza della
procedura e del metodo impiegati nel realizzare l'esperimento. Nel
caso di Sosta Quindici Minuti, che è appunto l'opera prima del
gruppo di Piombino, pur essendo del tutto estranei all'idea
originaria degli artisti, nondimeno sia io che Daniela De Dominicis
avevamo contribuito con le critiche espresse in lunghe discussioni
con gli artisti, a determinarne la formulazione finale. Oltracciò,
per la semplice ragione che avevamo una maggiore confidenza con la
scrittura, il resoconto dell'esperimento che figurava in catalogo a
firma del gruppo, era stato materialmente scritto da noi.
Del resto nello stato
nascente di un'avanguardia le singole personalità sono più sfumate
e meno definite e rendono la questione del chi abbia fatto cosa o
l'abbia fatto prima del tutto secondaria, se non addirittura priva di
senso: in questa fase infatti tutti quelli che si trovano all'interno
del cerchio magico concorrono in qualche modo al realizzarsi di ogni
singola opera.
Emblematica in questa chiave
è, ad esempio, l'opera di Renato Mambor Diario per gli amici
realizzata la prima volta nel 1967. L'opera è costituita infatti da
una serie di pannelli di legno dello stesso formato 50x140 cm.)
ognuno dei quali Mambor aveva affidato ad un amico artista perchè lo
trattasse secondo la propria tecnica d'esecuzione.
E su questo punto mi piace
ricordare anche una frase di Lombardo: "l'artista – o se
preferite l'uomo creativo – non ha paura di essere copiato, perchè
ha talmente tante idee che il suo timore è piuttosto quello che non
vengano realizzate".
Ma adesso voltiamo pagina.
Mi ero fatta l'idea che
l'insuccesso della scuola di piazza del Popolo, che aveva finito per
essere oscurata dalla Pop Art americana, non fosse dipeso dalla
qualità delle opere nè dall'essere maudit o "cacciatori
di contesse" – come qualcuno ebbe a definirli – degli
artisti, ma piuttosto dall'inadeguatezza dei galleristi e dei
mercanti – segnatamente Plinio de Martiis e Gian Tomaso Liverani –
che avrebbero dovuto sostenerli. Non erano mancati infatti i critici
fiancheggiatori – ricordo soltanto figure dello spessore di Emilio
Villa e Cesare Vivaldi ma potrei citarne molti altri – e inoltre,
forse per l'ultima volta in Italia, c'era stato anche il sostegno
istituzionale. Palma Bucarelli, la regina di quadri, come
recita il titolo di una sua biografia di recente pubblicazione (2),
che aveva trasformato la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di valle
Giulia nel primo museo d'arte contemporanea dirigendolo come una
corazzata per 35 anni, era stata infatti pronta a cogliere
l'importanza della situazione che si andava formando e a sostenerla
con le mostre e gli acquisti. A tutt'oggi gran parte delle opere di
questi artisti che possiamo vedere in questo museo sono frutto degli
acquisti della Bucarelli, e sottolineo la parola "acquisti",
non donazioni o comodati come invece diventerà pratica comune dei
sovrintendenti che le succederanno.
Quello che probabilmente è
invece mancato alla scuola di piazza del Popolo è la figura di un
personaggio capace di tirare le fila e catalizzare quel processo di
trasformazione di un'avanguardia in movimento diffuso che soltanto ne
può decretare il successo. Agli artisti di piazza del Popolo, in
altre parole, è mancato quello che Marinetti è stato per il
Futurismo o Breton per il Surrealismo. Entrambe figure in cui,
all'alto profilo intellettuale e alle indubbie capacità di
elaborazione teorica si coniugavano altrettanto indubbie capacità
organizzative e di gestione economico-mercantile. A sottolineare -
qualora ce ne fosse bisogno - l'importanza di quest'ultimo aspetto,
vale la pena ricordare come, ad esempio, il contrasto tra Breton e de
Chirico che portò al suo feroce ostracismo da parte del gruppo
surrealista che pure in precedenza lo aveva eletto a proprio nume
tutelare, al di là della motivazione ideologica addotta – lo
sguardo che la pittura di de Chirico negli anni Venti comincia a
rivolgere verso la classicità, distogliendolo dalla rappresentazione
dei sogni che interessava ai surrealisti – ha anche, se non
soprattutto, ragioni per così dire di mercato. Era infatti accaduto
che Breton aveva acquistato dall'artista una Piazza d'Italia che
aveva poi provato a vendere ad un collezionista ma non si era messo
daccordo sul prezzo. Il collezionista era quindi andato da de Chirico
e gliene aveva commissionata una simile per un prezzo minore di
quello richiesto da Breton. De Chirico, della cui scarsa fedeltà si
lamenteranno quasi tutti i mercanti che ebbero a che fare con lui,
aveva accettato senza porsi troppi problemi.
Per quanto riguarda il
mercato dell'arte, va comunque detto che nell'ultimo decennio ha
subito una profonda trasformazione. Il suo allargamento ha infatti
modificato il profilo socioculturale dell'acquirente tipo. Se infatti
da un lato l'acquisto di opere d'arte si è esteso a settori sempre
più ampi dell'alta borghesia coinvolgendo quei grandi capitali che
hanno determinato l'aumento del volume d'affari; dall'altra la
recessione economica ha tagliato fuori dalla possibilità d'acquisto
quei piccoli collezionisti che pagavano magari a rate, potendosi
privare senza difficoltà di quei 500-1000 euro al mese che oggi
invece gli servono per sopravvivere.
Questo per dire che i
collezionisti – peraltro molto pochi – che ho incontrato nel
periodo di Jartrakor, ma anche parte di quelli che ho conosciuto fin
quando ho avuto una galleria militante, erano realmente dei compagni
di strada che sostenevano e finanziavano la causa di artisti di cui
condividevano appieno il progetto. Questo non significa che fossero
privi dell'intenzione di realizzare dei profitti attraverso la
compravendita di opere d'arte, ma soltanto che pensavano di poterlo
ottenere attraverso la promozione di un valore culturale in cui si
riconoscevano. Personalmente, ricordo che ogni volta che riuscivo a
vendere un lavoro di un artista a cui ero legato da sodalizio, avevo
l'impressione di aver in realtà guadagnato un altro sostenitore alla
causa.
Oggi, questo tipo di figura,
che potremmo definire del collezionista-militante, o è praticamente
scomparsa o è una mosca bianca.
Oggi chi entra in galleria –
ammesso che ci entri - lo fa nella maggior parte dei casi armato di
uno smartphone su cui ha registrato tutte le ultime battute d'asta
delle opere degli artisti che intende acquistare.
Ho detto "ammesso che
ci entri", in galleria...perchè la galleria, come struttura di
distribuzione dell'arte, era molto legata ad un rapporto più intimo
tra collezionista e gallerista, al carisma culturale che il
gallerista sapeva esercitare e quindi alla fiducia che i suoi clienti
potevano riporre nelle capacità del suo sguardo d'intuire le cose
in anticipo sui tempi, lasciandosi guidare negli acquisti dalle sue
premonizioni. Nel momento in cui la l'istanza primaria che muove
all'acquisto diviene il profitto, tutto questo viene meno e l'unico
carisma che viene riconosciuto al gallerista è la sua potenza
economica. Vale a dire la sua capacità d'imporre sul mercato un
prodotto con la forza del capitale. Il mercato dell'arte non sfugge
infatti alla legge della domanda e dell'offerta, quindi, se posso
disporre di un capitale adeguato, è sufficiente rastrellare le opere
di un determinato artista – in alcuni casi si tratta inoltre solo
di determinate opere della sua produzione – per farne salire le
quotazioni. Ottenuto questo rialzo, si comincia a vendere con il
contagoccie, e si portano a casa gli utili.
La possibilità di condurre
in porto con successo operazioni speculative di questo tipo, che cioè
possono prescindere almeno in parte dalla qualità del prodotto,
altera la potenziale imparzialità di giudizio del mercato,
screditando il suo ruolo di arbitro che decreta il successo o
l'insuccesso di una forma d'arte. Questo però soltanto sul breve
termine. A medio e lungo termine abbiamo potuto constatare, anche
recentemente, come bolle speculative anche molto pompate si siano
sgonfiate poi altrettanto rapidamente a come si erano formate. Se non
è sostenuta dalla qualità, infatti, l'operazione speculativa tende
a perdere la sua spinta via via che decresce il numero di merci
accantonate dal capitale che l'ha avviata.
Tutto questo, in ogni caso,
concorre a ridurre il ruolo del gallerista, e conseguentemente della
galleria come struttura di distribuzione, a favore di altri canali
che mostrano una maggiore e più diffusa capacità di penetrazione
nel mercato come le case d'aste o le televendite. In pratica il
gallerista o si trasforma nel gestore di capitali che gli vengono
affidati per essere investiti nelle operazioni speculative oppure, se
tutto va bene, si ritrova relegato in una piccola nicchia alla
periferia del mercato.
Ad ogni modo, come stavo
accennando prima di aprire questa digressione, agli inizi del 1987
ritenni che fosse giunto il momento di uscire dalla riserva indiana
degli "spazi sperimentali", nei quali avevo fino a quel
momento portato avanti la mia ricerca, e giocare la partita
all'interno del sistema dell'arte ufficiale, rappresentato dal
circuito delle gallerie e dal mercato.
Ciò detto, convinto che un
intellettuale non dovesse avere timore di sporcarsi le mani con il
denaro, conobbi e strinsi un accordo a nome di tutto il gruppo con
Sergio Casoli, un mercante milanese che aveva da poco aperto una
galleria, per promuovere il lavoro del gruppo di Piombino.
Mi trasferii quindi a Milano
ed entrai a lavorare in galleria con il compito di curare le mostre e
coordinare le attività del gruppo. In qualche modo inventai la
figura del critico che anzichè scrivere per una rivista
specializzata od un quotidiano – anche se sporadicamente scrivevo
anche articoli o recensioni – lavorava ufficialmente per una
galleria privata, con il compito, potremmo dire, di curarne il
settore di ricerca.
Poi, come ha detto Cesare
Pietroiusti prima, è andata come è andata...
Note:
(1) cfr. F. Alberoni,
Innamoramento e amore, Milano 1979
(2) R.Ferrario, Regina di
quadri. Vita e passioni di Palma Bucarelli, Milano 2010