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domenica 13 gennaio 2019

Da piazza del Popolo a Piombino. Passando per via dei Pianellari.

Da piazza del Popolo a Piombino. Passando per via dei Pianellari.
di Domenico Nardone

relazione per il convegno Underground eventualista. La ricerca estetica in Italia 1972-2019, a cura di Miriam Mirolla, MACRO-Auditorium, Roma, gennaio 2019
 
 
 
Sono arrivato a Jartrakor – il centro studi fondato da Sergio Lombardo nella seconda metà degli anni '70 che aveva sede in via dei Pianellari 20– nel 1978, quando avevo da poco compiuto i vent'anni. E l'ho frequentato assiduamente per circa quattro anni, più o meno fino al 1982. Come Cesare Pietroiusti e Anna Homberg, che comunque avevano qualche anno più di me, ero iscritto alla Facoltà di Medicina.
Sergio Lombardo aveva vissuto da protagonista il cosiddetto clima felice degli anni Sessanta, era stato uno degli artisti di punta della cosiddetta scuola di Piazza del Popolo, di quella strabiliante esperienza, al tempo stesso tragica ed eroica, che a tutt'oggi considero l'ultima grande stagione della pittura e che conobbi allora attraverso la sua mediazione.
L'avventura degli artisti di Piazza del Popolo, che inizia sul finire degli anni Cinquanta ed è chiusa dall'irrompere del '68, è l'esperienza a noi più vicina nel tempo in cui possiamo riconoscere i tratti fondamentali di ciò che significa in arte essere avanguardia.
Il clima felice degli anni Sessanta è il titolo di un quadro di Tano Festa – una superficie bianca ripartita in sei rettangoli uguali da profilature nere, al centro dei quali campeggiano i nomi di Schifano, Angeli, Castellani, Festa, Manzoni e Lo Savio – che peraltro, per la data in cui è realizzato (1969) e per l'aspetto formale che ricorda vagamente gli annunci funebri, suona un po' come una campana a morto per la scuola di Piazza del Popolo. All'origine di un'avanguardia c'è infatti un clima, una situazione, il formarsi di un'aggregazione spontanea che da luogo, per usare un termine più moderno, ad una comunità del sentire.
Quando un sistema culturale procede verso il suo punto di catastrofe, in cui si rompe e si dissolve drammaticamente un paradigma di convenzioni accettate, e faticosamente, per tentativi ed errori, si avvia la gestazione di un nuovo paradigma, lì sono il tempo ed il luogo eccellenti dell'avanguardia, nell'accelerazione del processo di dissoluzione del vecchio e nella levazione del nuovo.
Gli artisti vivono e lavorano a stretto contatto di gomito, si annusano, si studiano, si stanno addosso, l'idea che vediamo appena delinearsi nel quadro dell' uno oggi, è immediatamente sviluppata e rilanciata l'indomani dal quadro di un altro.
 
Sergio Lombardo, Piazza Navona, smalto su tela, cm.180x230, 1963
 
Così è ad esempio per le sagome, le linee di profilo di volti, corpi e oggetti che si trasferiscono dai quadri di Lombardo a quelli di Tacchi, da quelli di Mambor a quelli di Schifano e Ettore Innocente fino alle sagome tridimensionali di Pascali e Ceroli, frantumando il paradigma rappresentato dalla dialettica astratto/figurativo – ormai divenuto sterile e stantio – in una sintesi geniale, giacchè la sagoma è al tempo stesso figura, giacchè rimanda ancora ad un determinato soggetto/oggetto reale, e rappresentazione astratta di questo soggetto/oggetto, giacchè ne mostra soltanto i caratteri essenziali.
Cesare Tacchi, Renato e poltrona, tecnica mista su tela imbottita, cm.160x140x8, 1965
 
Renato Mambor, 40 Uomini Timbro di Profilo, tecnica mista su cartoncino, 70x100, 1963
 
Franco Angeli, Corteo, smalto su carta intelata, cm.300x212, 1968
 
Mario Schifano, Futurismo rivisitato, smalto e spray su tela, 1965
 
Ettore Innocente, Slalom, materiali vari, cm.180x190x30, 1966
 
Il "clima felice" di cui parla Tano Festa, quello che all'epoca noi chiamavamo lo "stato nascente di un movimento" (1), l'essere avanguardia è quindi uno stato di grazia al cui formarsi concorrono una serie di personalità disparate, le cui esistenze si trovano ad essere a stretto contatto nel momento in cui un sistema di convenzioni, un paradigma culturale - come ho detto prima - si avvicina al suo punto di catastrofe. Ed è in questo momento, quando le regole precedentemente vigenti si dissolvono, che alla creatività si aprono spazi impraticati e sterminati, è in questa temperie segnata da un procedere quasi a tentoni, per tentativi e errori, senza più punti di ancoraggio che chiunque - anche il meno dotato – venga a trovarsi all'interno di questa sorta di cerchio magico, chiunque, come era solito dire Lombardo, può fare un quadro.

Io credo che la Teoria dell'Evento e dell'Arte Eventuale, e più in generale un approccio al problema dell'arte ed una sensibilità eventualista, che presero forma e si svilupparono in quegli anni sulle pagine della Rivista di psicologia dell'Arte, derivino ab origine da un ripensamento e da un'analisi approfondita di quella che era stata l'esperienza di piazza del Popolo che. Nelle lunghe serate a Jartrakor discutevamo infatti prevalentemente del lavoro di questi artisti, mentre ad esempio il lavoro di un artista come Boetti, che sicuramente è stato importante per la mia elaborazione teorica successiva al distacco dal gruppo di Jartrakor, l'ho scoperto soltanto successivamente, probabilmente proprio perchè questo artista non fece parte di quell'esperienza.
E' infatti soltanto in un mio scritto del 2002 – il testo di presentazione della mostra di Sergio Lombardo "dai Monocromi ai Gesti Tipici" allo Studio Soligo di Roma – che osservo come l'impianto teorico e metodologico dei Monocromi di Lombardo presenti delle forti affinità con i lavori a biro di Boetti.
L'impianto teorico dei Monocromi che Sergio Lombardo realizza alla fine degli anni '50, rispondeva all'esigenza, citando le sue stesse parole, di eliminare dal quadro ogni abilità tecnica sostituendola con l'esecuzione di un compito non qualitativamente rilevante (verniciare una superficie data con colori dati), sostituendo ogni fantasia con l'uso logico di elementi dati (composizioni uniformi, colori di campionario, regole esecutive, etc.).
Sergio Lombardo, Azzurro 81, collage e smalto su tela, cm.200x200, 1960
 
In pratica l'artista ritagliava una serie di foglietti di carta quadrangolari dello stesso formato che disponeva ad intervalli regolari a ricoprire la superficie, che poi verniciava nella maniera più uniforme possibile.
L'esigenza d'impersonalità nella realizzazione di un'opera che si avverte nel progetto di Lombardo, rappresenta peraltro un istanza fortemente sentita da tutti gli artisti di piazza del Popolo: levare l'io dal quadro, scriverà esplicitamente Renato Mambor. Il soggetto, cacciato dalla porta, rientra però di soppiatto dalla finestra e trova espressione negli scarti minimi e nelle irregolarità più o meno appariscenti che l'esecuzione presenta - in maniera non volontaria e fuori dal controllo della coscienza - rispetto al progetto: impreviste scolature di colore, irregolarità di contorno, errori nella profilatura dei foglietti di carta.
 
Alighiero Boetti, Mettere al mondo il mondo, penna biro su carta intelata, cm.160x147, 1975

Le cosiddette "biro" che Boetti comincia a realizzare a partire dai primi anni '70, sono invece opere composte dalla giustapposizione di diversi elementi cartacei dello stesso formato che l'artista affida ognuno ad un diverso esecutore con il compito di campirli uniformemente con la penna a biro.
Ogni foglio di carta contiene delle parti che non devono essere ricoperte.
Al termine dell'operazione, a sinistra le parti non campite delineano le lettere dell'alfabeto disposte lungo una verticale; procedendo verso destra, nel senso della lettura, compaiono delle virgole che corrispondono alle lettere dell'alfabeto allineate sulla sinistra e che compongono in questo modo una frase.
Una delle prime frasi fatte realizzare da Boetti secondo questa procedura è "mettere al mondo il mondo", composta da otto fogli 70x100 la cui realizzazione venne affidata dall'artista alternando un esecutore di sesso maschile ad uno di sesso femminile.
La forma e la struttura più adatte a coprire uniformemente un'ampia superficie consistono in un fitto e coprente tratteggio verticale, dall'alto in basso, nondimeno, pur mantenendosi all'interno della regola esecutiva stabilita dall'artista, spiccano ed emergono, non solo le differenze di tratteggio tra un esecutore ed un altro, ma anche quelle realizzate dalla stessa mano in giorni diversi. Il processo di produzione messo a punto da Boetti per la realizzazione di questi lavori a biro, funziona quindi anche come una sorta di sismografo capace di rilevare i diversi stati d'animo di un singolo esecutore che si ritrovano ad essere espressi dalle differenze ed irregolarità del tracciato di campitura del foglio di carta. Come nei Monocromi di Lombardo, l'esecutore/realizzatore si trova ad esprimere la sua individualità malgré lui-meme, in tutte quelle alterazioni, involontarie e più o meno vistosamente percettibili, che subentrano nella ripetizione reiterata dello stesso gesto in funzione di alcune variabili, alcune delle quali – come la noia o il calo di attenzione – prevedibili, altre – come il trillo del telefono che mi fa sobbalzare all'improvviso – assolutamente no.
E proprio l'insieme di queste tracce minimali di sè che il soggetto dissemina involontariamente ed inconsapevolmente durante l'esecuzione di un compito, di un gesto o di un'azione ordinaria che si ripetono apparentemente identici a se stessi nella routine della vita quotidiana e le costellazioni di segni che queste tracce generano, diventeranno il campo d'azione privilegiato della ricerca del Gruppo di Piombino.
Rispetto a quanto osservato nei lavori di Lombardo e Boetti – che ho citato come antecedenti e punti di partenza necessari in quanto a mio avviso particolarmente rigorosi ma ovviamente un'attenzione per il fenomeno del cosiddetto "espressionismo involontario" si riscontra anche nel lavoro di altri artisti – la teoria e la pratica dell'arte del Gruppo di Piombino introducono come istanza primaria la necessità di abbassare il più possibile il livello di consapevolezza dei soggetti implicati nei processi di realizzazione/esecuzione, questo al fine di meglio garantire l'autenticità e l'involontarietà del loro comportamento.
E' peraltro vero che già in Boetti, nel passaggio dai lavori a biro ai ricami, si assiste ad un abbassamento del livello di consapevolezza dell'esecutore. Le ricamatrici di Kabul e di Peshawar a cui l'artista affida il compito di tessere al telaio gli arazzi da lui progettati, infatti, sono delle semplici lavoratrici salariate che non hanno alcuna coscienza di star confezionando un oggetto che sarà poi distribuito e mercificato come arte, addirittura spesso neppure sono in grado di leggere la frase che ricamano a telaio.
Osserviamo adesso alcuni esempi della metodologia adottata dagli artisti del Gruppo di Piombino.
Fig.1 Salvatore Falci, ATM, cera e smalto su masonite, cm. 140x200, 1987

Questa fotografia riproduce un "pavimento" di Salvatore Falci (fig.1). L'artista aveva dipinto uniformemente di nero delle lastre di masonite bianca che, nel caso in oggetto, aveva disposto sotto una pensilina dove la gente attendeva l'autobus, sì che si confondessero con una normale pavimentazione a linoleum (fig.1a).
 
Fig. 1a
 
I segni che vedete nel quadro sono quindi il prodotto di una giornata di calpestio da parte di persone del tutto inconsapevoli di partecipare alla realizzazione di un quadro.
 
Fig.3 Pino Modica, Vetreria Petri, plexiglas e impianto luci, cm.124x144, 2004 

Questo è invece un "piano di lavoro" di Pino Modica (fig.3), realizzato con un metodo analogo. La superficie di plexiglas è infatti stata sovrapposta al normale piano di lavoro di una vetreria ed è stato ritirato al termine della giornata. I segni che si vedono sul piano, soltanto accentuati dall'impianto di retroilluminazione con cui l'artista l'ha successivamente impaginato, sono frutto dell'ordinaria attività degli artigiani che vi hanno lavorato sopra.
Fig.4

Qui abbiamo una "prova resistenza" di Stefano Fontana (fig.4). All'interno di queste strutture si osserva teso uno scampolo di tessuto racchiuso tra due lastre di plexiglass traforate. Al di sotto si nota un cassetto che contiene una serie di asticelle di rame. Cinque di queste strutture – realizzate con colori di tessuto diversi (giallo, rosso, blu, bianco e nero) – dono state collocate nel reparto tessuti di una grande magazzino. La clientela era indotta a credere che si trattasse di un modo per testare la resistenza dei tessuti - che erano regolarmente in vendita - mediante l'introduzione delle barrette nei fori.
 
Fig.5 Stefano Fontana, Prova resistenza, materiali vari, dimensioni variabili, 1988
 
Nella fig.5, le cinque strutture come vennero esposte da Fontana nella Biennale del 1988, dopo che l'artista le aveva bloccate nella configurazione assunta dopo una giornata d'interazione con la clientela del grande magazzino.
Fig.6 Cesare Pietroiusti, Hackerbrau, stampa cibachrome su compensato, diam. cm.125, 1988

Questo è infine uno dei photo-object realizzati all'epoca da Cesare Pietroiusti (Fig.6). Si tratta di un sottobicchiere ritrovato dall'artista e riprodotto senza apportarvi alcuna modifica su scala gigante (125 cm. di diametro).

Volevo adesso prendere in considerazione un punto che mi riguarda più da vicino. Vale a dire l'accezione che ho dato al ruolo di critico militante e il modo in cui l'ho interpretato.
In apertura del catalogo della prima mostra del gruppo di Piombino – galleria Lascala, Roma, 1984 – dove usualmente è collocato il testo di presentazione scritto da un critico, si legge questo brevissimo testo a firma del sottoscritto e di Daniela De Dominicis:
"Da tempo abbiamo trasferito il nostro lavoro di critici militanti all'interno del processo di produzione dell'arte, anzichè relegarlo in un tempo ad essa postumo. Le nostre argomentazioni teoriche e critiche danno e prendono vita dalla pratica sperimentale da cui a volte, non possono essere estrapolate. Per questo abbiamo rinunciato a scrivere una 'presentazione critica' che non avrebbe avuto ai nostri occhi alcun significato."
Con questa dichiarazione volevamo esplicitare il fatto che, nel caso di un'arte sperimentale come quella con cui avevamo a che fare, il lavoro del critico consisteva soprattutto nella verifica della correttezza della procedura e del metodo impiegati nel realizzare l'esperimento. Nel caso di Sosta Quindici Minuti, che è appunto l'opera prima del gruppo di Piombino, pur essendo del tutto estranei all'idea originaria degli artisti, nondimeno sia io che Daniela De Dominicis avevamo contribuito con le critiche espresse in lunghe discussioni con gli artisti, a determinarne la formulazione finale. Oltracciò, per la semplice ragione che avevamo una maggiore confidenza con la scrittura, il resoconto dell'esperimento che figurava in catalogo a firma del gruppo, era stato materialmente scritto da noi.
Del resto nello stato nascente di un'avanguardia le singole personalità sono più sfumate e meno definite e rendono la questione del chi abbia fatto cosa o l'abbia fatto prima del tutto secondaria, se non addirittura priva di senso: in questa fase infatti tutti quelli che si trovano all'interno del cerchio magico concorrono in qualche modo al realizzarsi di ogni singola opera.
Emblematica in questa chiave è, ad esempio, l'opera di Renato Mambor Diario per gli amici realizzata la prima volta nel 1967. L'opera è costituita infatti da una serie di pannelli di legno dello stesso formato 50x140 cm.) ognuno dei quali Mambor aveva affidato ad un amico artista perchè lo trattasse secondo la propria tecnica d'esecuzione.
E su questo punto mi piace ricordare anche una frase di Lombardo: "l'artista – o se preferite l'uomo creativo – non ha paura di essere copiato, perchè ha talmente tante idee che il suo timore è piuttosto quello che non vengano realizzate".
Ma adesso voltiamo pagina.
Mi ero fatta l'idea che l'insuccesso della scuola di piazza del Popolo, che aveva finito per essere oscurata dalla Pop Art americana, non fosse dipeso dalla qualità delle opere nè dall'essere maudit o "cacciatori di contesse" – come qualcuno ebbe a definirli – degli artisti, ma piuttosto dall'inadeguatezza dei galleristi e dei mercanti – segnatamente Plinio de Martiis e Gian Tomaso Liverani – che avrebbero dovuto sostenerli. Non erano mancati infatti i critici fiancheggiatori – ricordo soltanto figure dello spessore di Emilio Villa e Cesare Vivaldi ma potrei citarne molti altri – e inoltre, forse per l'ultima volta in Italia, c'era stato anche il sostegno istituzionale. Palma Bucarelli, la regina di quadri, come recita il titolo di una sua biografia di recente pubblicazione (2), che aveva trasformato la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di valle Giulia nel primo museo d'arte contemporanea dirigendolo come una corazzata per 35 anni, era stata infatti pronta a cogliere l'importanza della situazione che si andava formando e a sostenerla con le mostre e gli acquisti. A tutt'oggi gran parte delle opere di questi artisti che possiamo vedere in questo museo sono frutto degli acquisti della Bucarelli, e sottolineo la parola "acquisti", non donazioni o comodati come invece diventerà pratica comune dei sovrintendenti che le succederanno.
Quello che probabilmente è invece mancato alla scuola di piazza del Popolo è la figura di un personaggio capace di tirare le fila e catalizzare quel processo di trasformazione di un'avanguardia in movimento diffuso che soltanto ne può decretare il successo. Agli artisti di piazza del Popolo, in altre parole, è mancato quello che Marinetti è stato per il Futurismo o Breton per il Surrealismo. Entrambe figure in cui, all'alto profilo intellettuale e alle indubbie capacità di elaborazione teorica si coniugavano altrettanto indubbie capacità organizzative e di gestione economico-mercantile. A sottolineare - qualora ce ne fosse bisogno - l'importanza di quest'ultimo aspetto, vale la pena ricordare come, ad esempio, il contrasto tra Breton e de Chirico che portò al suo feroce ostracismo da parte del gruppo surrealista che pure in precedenza lo aveva eletto a proprio nume tutelare, al di là della motivazione ideologica addotta – lo sguardo che la pittura di de Chirico negli anni Venti comincia a rivolgere verso la classicità, distogliendolo dalla rappresentazione dei sogni che interessava ai surrealisti – ha anche, se non soprattutto, ragioni per così dire di mercato. Era infatti accaduto che Breton aveva acquistato dall'artista una Piazza d'Italia che aveva poi provato a vendere ad un collezionista ma non si era messo daccordo sul prezzo. Il collezionista era quindi andato da de Chirico e gliene aveva commissionata una simile per un prezzo minore di quello richiesto da Breton. De Chirico, della cui scarsa fedeltà si lamenteranno quasi tutti i mercanti che ebbero a che fare con lui, aveva accettato senza porsi troppi problemi.
Per quanto riguarda il mercato dell'arte, va comunque detto che nell'ultimo decennio ha subito una profonda trasformazione. Il suo allargamento ha infatti modificato il profilo socioculturale dell'acquirente tipo. Se infatti da un lato l'acquisto di opere d'arte si è esteso a settori sempre più ampi dell'alta borghesia coinvolgendo quei grandi capitali che hanno determinato l'aumento del volume d'affari; dall'altra la recessione economica ha tagliato fuori dalla possibilità d'acquisto quei piccoli collezionisti che pagavano magari a rate, potendosi privare senza difficoltà di quei 500-1000 euro al mese che oggi invece gli servono per sopravvivere.
Questo per dire che i collezionisti – peraltro molto pochi – che ho incontrato nel periodo di Jartrakor, ma anche parte di quelli che ho conosciuto fin quando ho avuto una galleria militante, erano realmente dei compagni di strada che sostenevano e finanziavano la causa di artisti di cui condividevano appieno il progetto. Questo non significa che fossero privi dell'intenzione di realizzare dei profitti attraverso la compravendita di opere d'arte, ma soltanto che pensavano di poterlo ottenere attraverso la promozione di un valore culturale in cui si riconoscevano. Personalmente, ricordo che ogni volta che riuscivo a vendere un lavoro di un artista a cui ero legato da sodalizio, avevo l'impressione di aver in realtà guadagnato un altro sostenitore alla causa.
Oggi, questo tipo di figura, che potremmo definire del collezionista-militante, o è praticamente scomparsa o è una mosca bianca.
Oggi chi entra in galleria – ammesso che ci entri - lo fa nella maggior parte dei casi armato di uno smartphone su cui ha registrato tutte le ultime battute d'asta delle opere degli artisti che intende acquistare.
Ho detto "ammesso che ci entri", in galleria...perchè la galleria, come struttura di distribuzione dell'arte, era molto legata ad un rapporto più intimo tra collezionista e gallerista, al carisma culturale che il gallerista sapeva esercitare e quindi alla fiducia che i suoi clienti potevano riporre nelle capacità del suo sguardo d'intuire le cose in anticipo sui tempi, lasciandosi guidare negli acquisti dalle sue premonizioni. Nel momento in cui la l'istanza primaria che muove all'acquisto diviene il profitto, tutto questo viene meno e l'unico carisma che viene riconosciuto al gallerista è la sua potenza economica. Vale a dire la sua capacità d'imporre sul mercato un prodotto con la forza del capitale. Il mercato dell'arte non sfugge infatti alla legge della domanda e dell'offerta, quindi, se posso disporre di un capitale adeguato, è sufficiente rastrellare le opere di un determinato artista – in alcuni casi si tratta inoltre solo di determinate opere della sua produzione – per farne salire le quotazioni. Ottenuto questo rialzo, si comincia a vendere con il contagoccie, e si portano a casa gli utili.
La possibilità di condurre in porto con successo operazioni speculative di questo tipo, che cioè possono prescindere almeno in parte dalla qualità del prodotto, altera la potenziale imparzialità di giudizio del mercato, screditando il suo ruolo di arbitro che decreta il successo o l'insuccesso di una forma d'arte. Questo però soltanto sul breve termine. A medio e lungo termine abbiamo potuto constatare, anche recentemente, come bolle speculative anche molto pompate si siano sgonfiate poi altrettanto rapidamente a come si erano formate. Se non è sostenuta dalla qualità, infatti, l'operazione speculativa tende a perdere la sua spinta via via che decresce il numero di merci accantonate dal capitale che l'ha avviata.
Tutto questo, in ogni caso, concorre a ridurre il ruolo del gallerista, e conseguentemente della galleria come struttura di distribuzione, a favore di altri canali che mostrano una maggiore e più diffusa capacità di penetrazione nel mercato come le case d'aste o le televendite. In pratica il gallerista o si trasforma nel gestore di capitali che gli vengono affidati per essere investiti nelle operazioni speculative oppure, se tutto va bene, si ritrova relegato in una piccola nicchia alla periferia del mercato.

Ad ogni modo, come stavo accennando prima di aprire questa digressione, agli inizi del 1987 ritenni che fosse giunto il momento di uscire dalla riserva indiana degli "spazi sperimentali", nei quali avevo fino a quel momento portato avanti la mia ricerca, e giocare la partita all'interno del sistema dell'arte ufficiale, rappresentato dal circuito delle gallerie e dal mercato.
Ciò detto, convinto che un intellettuale non dovesse avere timore di sporcarsi le mani con il denaro, conobbi e strinsi un accordo a nome di tutto il gruppo con Sergio Casoli, un mercante milanese che aveva da poco aperto una galleria, per promuovere il lavoro del gruppo di Piombino.
Mi trasferii quindi a Milano ed entrai a lavorare in galleria con il compito di curare le mostre e coordinare le attività del gruppo. In qualche modo inventai la figura del critico che anzichè scrivere per una rivista specializzata od un quotidiano – anche se sporadicamente scrivevo anche articoli o recensioni – lavorava ufficialmente per una galleria privata, con il compito, potremmo dire, di curarne il settore di ricerca.
Poi, come ha detto Cesare Pietroiusti prima, è andata come è andata...
 
Note:
(1) cfr. F. Alberoni, Innamoramento e amore, Milano 1979
(2) R.Ferrario, Regina di quadri. Vita e passioni di Palma Bucarelli, Milano 2010