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sabato 22 marzo 2014

Dai Monocromi ai Gesti Tipici

Dai Monocromi ai Gesti Tipici
di Domenico Nardone

in catalogo della mostra Sergio Lombardo: dai Monocromi ai Gesti Tipici (1959-1964), a cura di D.Nardone, Studio Soligo, Roma 2002.

 
La scelta delle opere raccolte è volta a cogliere e illustrare uno dei momenti salienti del progredire della ricerca di Lombardo e, più in generale, del movimento della cosiddetta Nuova scuola di Roma (Angeli, Bignardi, Festa, Fioroni, Kounellis, Lombardo, Mambor, Schifano, Tacchi) (1).

da sinistra a destra: Renato Mambor, Giosetta Fioroni, Sergio Lombardo, Cesare Tacchi, Jannis Kounellis, Umberto Bignardi, Tano Festa.
 
Il momento in questione è quello in cui, nella pittura degli artisti citati, si osserva una transizione dalla dimensione reclusa e astratta dei monocromi a quella di una nuova figurazione. Il periodo cruciale è la stagione a cavallo tra il 1960 ed il 1961 e la trasformazione in oggetto risulta chiaramente da una ricezione all'interno della problematica pittorica del nuovo immaginario e della iconosfera che cominciano ad essere divulgati dal nascente sistema dei mezzi di comunicazione di massa (cinema, televisione, pubblicità, stampa a rotocalco, etc.) (2). Nel campo delle arti visive, le icone di questo nuovo immaginario sono sul punto di essere accolte e riproposte in tono inquisitorio (3) e roboante dal dilagante fenomeno della Pop Art americana.
In questo contesto Lombardo ricorda un'accesa discussione al suo studio dinanzi ai monocromi e presenti Schifano, Mambor, Tacchi e Festa, in cui quest'ultimo, insieme ad altri e più confusi argomenti, lo accusava di fare una pittura intellettuale, del tutto ripiegata in se stessa e reclusa all'interno delle quattro pareti dello studio, e avvertiva la necessità di aprirla alle immagini del mondo nuovo che cominciava a pulsare attorno a loro (4). Quest'ultimo argomento fu raccolto da Lombardo e recepito all'interno del suo lavoro, che già si stava orientando verso ricerche più estroverse, accelerandone la trasformazione nella direzione indotta da una esigenza, avvertita come imprescindibile e forte – presente anche nei monocromi – di mettere il pubblico di fronte alla enigmatica e pericolosa trasformazione della realtà contemporanea, anziché intrattenerlo di fronte all'espressione intimista delle sue emozioni poetiche (5).
Sulla spinta di queste istanze nascono i Gesti Tipici di Sergio Lombardo, gli Incidenti di Schifano, i Giudizi universali di Tano Festa, i Particolari di Tacchi e gli Uomini statistici di Mambor.
La tecnica d'elezione attraverso cui gli artisti aprono la loro pittura alla nuova iconosfera è quella del reportage, nel suo significato letterale di riportare sulla tela, con l'ausilio di un proiettore di diapositive, le immagini estrapolate dai mezzi di comunicazione di massa. Il riporto delle immagini avviene tuttavia per mezzo di una mediazione pittorica vibrante e appariscente, evidente nel persistere del dripping e nella vistosa irregolarità delle campiture, nonché nella soppressione di molti dettagli. Questa forte processazione delle immagini e delle icone rese popolari dalla diffusione mediatica costituisce una peculiarità dell'avanguardia romana tale da collocarla, sotto il profilo ideologico, su un versante antitetico e addirittura antagonista rispetto alla Pop angloamericana.
I termini del contrasto sono per altro chiaramente indicati da Lombardo nel suo testo di presentazione della mostra Lombardo, Mambor, Tacchi alla galleria La Tartaruga: se infatti gli artisti americani non dicono né sì né no al mondo (6), da cui prelevano le immagini che riproducono fedelmente, viceversa, a noi non basta accettare e utilizzare, altrimenti il dipinto ci diventerebbe una specie di riflusso dall'esterno di tutte le immagini che si trovano nella sfera endotimica (…) Noi diciamo invece che tali immagini non restano sullo shermo televisivo o sul fumetto, ma entrano nei rapporti sociali in cui si viene a creare un chiuso determinismo riflettente appunto quegli atteggiamenti-tipo originati dalla televisione, dalla stampa, dalla macchina e tale determinismo finisce per invadere il campo della originalità individuale fino alla sterilizzazione di ogni spunto emotivo e di ogni interesse nei rapporti intersogettivi (7).
Riconoscendo nella gestazione del nuovo immaginario collettivo, e nella sua diffusione globale da parte dei mezzi di comunicazione di massa, l'induzione sociale di comportamenti stereotipati, destinata a produrre inevitabilmente un insterilimento della vita quotidiana, oltre a dar prova di una sensibilità incredibilmente in anticipo sui tempi (8), Lombardo individua anche per la prima volta nell'arte – con i suoi Gesti Tipici e la teoria che li sottende - uno strumento di contrasto e opposizione alla penetrazione sociale di tali modelli di comportamento attraverso il lucido metodo dello svelamento e della radicalizzazione.
Da un punto di vista strettamente filologico, Lombardo perviene quindi alla scoperta dei gesti tipici nello sforzo di liberare la pittura dai limiti formali imposti dall'impianto monocromo e aprirla alle influenze esercitate dal mondo circostante, mantenendone però integro il rigore concettuale e senza nulla concedere – o, meglio, concedendo il meno possibile – alle pulsioni lirico-espressive del proprio io. L'impianto teorico dei monocromi rispondeva infatti proprio all'esigenza di eliminare dal quadro ogni abilità tecnica, che veniva sostituita dall'esecuzione di un compito non qualitativamente rilevante (verniciare superfici date con colori dati) e ogni fantasia, sostituita dall'uso logico di elementi dati (composizioni uniformi, colori di campionario, forme geometriche, regole), sopprimendone cioè tutte quelle componenti che potessero ricondurne lo statuto ed il valore a quelli di un manufatto dotato di attributi particolari (9).
Tre studi su carta presenti in questa mostra, praticamente inediti e che non diedero luogo a opere su tela, indicano la strada percorsa dall'artista prima di giungere alla scoperta dei gesti tipici: si tratta infatti di studi che raffigurano particolari di abbigliamento (ad esempio una cravatta ed il risvolto di una giacca gessata) e che testimoniano una ricerca di strutture formali regolari e ripetitive nell'ambito della realtà circostante.

Sergio Lombardo, Particolare con cravatta, smalto su carta intelata, cm. 50x70, 1960-61 

Regolarità e ripetizione che egli ravvisa rapidamente anche nell'ambito dei manierismi in cui tendono a cristallizzarsi alcuni dei nostri atteggiamenti più banali e quotidiani e la cui osservazione e documentazione dà origine ad una prima serie di quadri intitolata appunto Atteggiamenti tipici (due mani che gesticolano, gambe che si accavallano, etc.).
Alla luce di queste considerazioni, si comprende come il passaggio della pittura di Lombardo dall'universo recluso dei Monocromi ai Gesti Tipici, se da un lato matura ed è partecipe di un più ampio processo di trasformazione che investe tutta la pittura della nuova scuola di Roma, dall'altro, ad una analisi appena più approfondita, evidenzia con i risultati a cui questa perviene delle somiglianze che si riducono ad una affinità quasi esclusivamente formale.
I Gesti Tipici – per le implicazioni psicologiche del tema trattato – rivelano infatti uno spostamento dell'attenzione dell'artista, dal quadro inteso come manufatto e valore a se stante alla relazione che questo intrattiene e stabilisce con chi lo guarda. Questi quadri, in altre parole, contengono già, in nuce, i prodromi di quella evoluzione dell'arte in psicologia dell'arte a cui la ricerca dell'artista perverrà sul finire degli anni Settanta (10).

I Gesti Tipici veri e propri – che seguono di poco i primi Atteggiamenti Tipici – sono infatti dichiaratamente dei gesti di potere, anzi i gesti del potere (l'indice alzato e minaccioso di Krusciov, quello teso e puntato di Kennedy, etc.) che esercitano nei confronti di chi guarda un forte impatto emotivo ed una reazione di sottomissione.
 
Sergio Lombardo, Uomo politico in atteggiamento tipico, smalto su tela, cm.180x230, 1962
in primo piano: Anna Homberg
 
Nella memoria dell'artista è infatti ancora vivo il ricordo del senso di disagio e di allarme provato dagli spettatori al cospetto delle opere, tanto che più d'uno – tra cui il poeta Tristan Tzara di cui egli rammenta la franca ostilità – gli riferì di averle sognate nel corso della settimana seguente all'inaugurazione (11).
 
 
Quanto rappresentato sulla tela, nel caso di queste opere - più che a costituirsi come valore autonomo – tende quindi apertamente ad assumere il ruolo di elemento performativo di una dinamica stimolo-risposta che coinvolge direttamente lo spettatore nella realizzazione di ciò che – solo più tardi – Sergio Lombardo definirà nei termini di evento e che formerà l'asse portante della sua teoria dell'arte (12).


Note:

(1) Il termine di Nuova scuola di Roma ed i nomi degli artisti che vi si possono identificare sono indicati per la prima volta, nel contesto di una bozza teorica che ne giustifichi il raggruppamento, da Cesare Vivaldi, nel suo, La giovane scuola di Roma in Il Verri, fascicolo speciale Dopo l'Informale, pagg. 101-105, 1963.

(2) Il primo film girato in cinemascope, tecnica di ripresa che schiude al cinema le porte del grande schermo è La Tunica del 1953; nel 1954 la Rai comincia a diffondere le proprie trasmissioni con regolarità su tutto il territorio nazionale, etc.

(3) L'espressione è usata da Sergio Lombardo nel testo di presentazione della mostra Lombardo, Mambor, Tacchi, galleria La Tartaruga, Roma, aprile 1963.

(4) Nella memoria di Lombardo, quasta conversazione – di cui serba un nitido ricordo, soprattutto per le ripercussioni che gli argomenti posti sul tappeto da Tano Festa ebbero sull'evoluzione del suo lavoro – avviene davanti ai suoi monocromi – già esposti da Lombardo a partire dal 1958 in alcune mostre minori, ma circa sei mesi o un anno prima della loro presentazione alla mostra a premi presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, a cura di Palma Bucarelli e altri, 1962. Il quadro accettato dalla giuria fu Nero 432, cm. 150X200, mentre furono respinti Azzurro 1023 e Nero 110. Cfr. M.Mirolla, I Monocromi di Sergio Lombardo, in Rivista di Psicologia dell'Arte, nn.3/4/5, nuova serie, 1994, pagg.87-95. Con una qualche approssimazione, l'incontro in questione dovrebbe quindi aver avuto luogo nella seconda metà del 1961.

(5) Sergio Lombardo, conversazione privata, febbraio 2002

(6) J.Reichardt, in Art International, feb 1963. la citazione è riportata da Lombardo nel testo di presentazione della mostra Lombardo, Mambor, Tacchi (op.cit). L'interpretazione del movimento pop angloamericano in chiave di satira e commento sociale – sostenuta ad esempio da G.C. Argan in Il banchetto della nausea in La botte e il violino, 1963 – è, a mio avviso, completamente erronea e in quanto tale da rigettare. La stessa riproduzione del ritratto di Mao Tze Tung è infatti supinamente assimilata da Wharol a quella delle altre icone – come la bottiglia di Coca-Cola o l'immagine della Monroe – emblematiche di una civiltà dei consumi globale. Questo procedimento di assimilazione, che assume come valore a sé stante il grado di diffusione di un'immagine rispetto a ciò che pure dovrebbe rappresentare, isolandola, la svuota di fatto di ogni contenuto antagonista e di critica sociale. In virtù di un procedimento del tutto analogo del resto, in tempi molto più recenti (1997), la stessa immagine di Stalin è stata utilizzata, nell'ambito della campagna pubblicitaria Think different, come testimonial della Apple computers.


A questo proposito vedi anche D.Nardone, La perdita di ruolo dell'artista nella società contemporanea, in Riv. Psicol.dell'Arte, nn. 14/15, 1987, pagg. 43-50.

(7) Sergio Lombardo, op.cit.

(8) Il processo di sganciamento dei marchi di fabbrica dai prodotti che pure continuano a sottendere – ben esemplificato dalla massiva dismissione da parte delle multinazionali dell'intero processo di produzione, delegato e subappaltato alle export processing zone del Terzo Mondo – che rivela chiaramente il fenomeno del branding, il fatto cioè che quanto viene diffuso e venduto ai consumatori di tutto il mondo non siano tanto dei prodotti – la cui qualità verrebbe garantita dal marchio di fabbrica – quanto i marchi in se stessi, ovverosia degli stili di vita che si connotano per il possesso di una serie di oggetti il cui insieme viene a formare la cosiddetta world-wide style culture,
una cultura globale costituita da modelli d'identificazione preconfezionati e standardizzati, a cui le parole di Lombardo sembrano alludere apertamente nel 1963, si è reso evidente, ed è stato avvertito e stigmatizzato dalla critica sociale, solo molto recentemente (cfr. N.Klein, No Logo, Baldini & Castoldi, 2001).

(9) la citazione è tratta da S.Lombardo, Sergio Lombardo, Di Maggio Editore, Milano 1974. A proposito della dissoluzione della definizione morfologica di oggetto d'arte nella pratica artistica contemporanea vedi anche il mio La scomparsa dell'oggetto d'arte, in Riv. Psicol. Dell'Arte, n.2, giugno 1980.
L'analisi degli aspetti comportamentali già presenti nell'impianto teorico e metodologico dei monocromi, nella misura in cui questo esplicita i termini della dialettica processo-esecuzione, è stata invece da me recentemente ed esaurientemente affrontata in Il metodo è il quadro, in cat. mostra Sergio Lombardo, sala La Rocca, Suvereto 2001.
Sotto il profilo teorico è interessante notare come un impianto analogo a quello dei monocromi di Lombardo sostenga anche le biro che Boetti comincerà a realizzare a partire dal 1973. In questo caso, l'affidamento dell'esecuzione di un compito non qualitativamente rilevante (campire uniformemente una superficie, secondo uno schema dato, con una penna a biro) a mani diverse lascia emergere – per mezzo di un confronto diretto all'interno della stessa superficie che di regola non viene mai campita interamente dalla stessa mano – delle peculiarità, delle forme di espressionismo involontario, che nondimeno ogni esecutore introduce nell'esecuzione del compito elementare.

(10) La rivista di Psicologia dell'Arte viene fondata dall'artista – insieme ad Anna Homberg, Cesare Pietroiusti ed al sottoscritto – nel 1979.

(11) Il forte impatto emotivo dei Gesti Tipici fu anche in parte sostenuto dai grandi formati su cui vennero presentati e che, per l'epoca erano quasi inediti in Italia. Molti artisti della stessa generazione di Lombardo sono soliti raccontare lo shock che provarono alla vista dei grandi formati - a cui assolutamente non erano abituati – alla personale di Rhotko presso la Galleria Nazionale d'Arte Moderna del 1959.

(12) Un primo abbozzo della teoria eventualista è già in S.Lombardo, Italy two, Art Around '70, Museum of the Philadelphia Civic Center, 1973. In una recente conversazione, l'artista mi ha raccontato come, contemporaneamente alla realizzazione dei Gesti Tipici, egli assumeva nella realtà questi atteggiamenti, sperimentandone l'efficacia in una serie di circostanze. Ciò non fa che ribadire il debordare dell'attenzione dai limiti ristretti dell'oggetto quadro alla ricerca di un'incidenza dell'arte nella realtà del quotidiano.

lunedì 10 marzo 2014

Cesare Pietroiusti intervistato da Achille Bonito Oliva, 2014

Rai Replay



Cesare Pietroiusti, intervistato da Achille Bonito Oliva per il programma Fuori quadro, Rai 3, 9 marzo 2014, min. 12'10" - 16'34"

martedì 18 febbraio 2014

Marta Leteo, Intervista a Cesare Pietroiusti, 2014


Marta Leteo
Intervista a Cesare Pietroiusti
(in Marta Leteo, Il Gruppo di Piombino: una risposta al 'ritorno all’immagine'.Teoria e metodologia di contrasto praticata nel reale, tesi di laurea magistrale in Storia dell’arte, Università degli studi “La Sapienza”, Roma, 2014)

 Marta Leteo: L’elaborazione della tesi mi ha portato a riflettere sul ruolo del Gruppo di Piombino rispetto al panorama artistico italiano. Ritengo che abbiate rappresentato un fenomeno singolare sia per gli intenti sia per il modo di proporvi nel contesto dei primi anni ottanta. Mi puoi raccontare cosa ha rappresentato per te far parte del Gruppo di Piombino? Ci sono stati dei riferimenti artistico-culturali che hanno dato origine a questa esperienza?
Cesare Pietroiusti: Io e Domenico Nardone (e gli altri artisti del Gruppo di Piombino, se non direttamente, indirettamente) ci siamo formati sull’insegnamento di Sergio Lombardo.
Io credo che, prima di rappresentare un’anticipazione della cosiddetta ‘estetica relazionale’ degli anni ‘90, abbiamo cercato di tenere viva una linea di continuità con le ricerche degli anni precedenti. Nel decennio degli anni ottanta, incentrato su un ritorno “reazionario” al mercato, alla specificità (pittorica, scultorea) dell’opera, al valore legittimante della galleria, per noi era importante rielaborare l’eredità di Lombardo (ma ovviamente anche di Piero Manzoni, dei Fluxus, di  John Cage ecc.) e svilupparla verso altri orizzonti.
Direi che l’esperienza dei Piombinesi si situa a metà fra l’inizio dell’arte relazionale (che esploderà nella seconda metà degli anni novanta), e le ricerche degli anni settanta.

M.L.: Effettivamente ci sono alcune affinità, almeno in una fase iniziale, tra l’Arte Eventuale e l’orizzonte di ricerca Piombinese ma sono poi le differenze ad aver orientato in direzioni distinte la teoria e la pratica artistica delle due esperienze. Queste differenze hanno segnato anche il tuo stesso percorso, portandoti ad allontanarti da Lombardo per accostarti agli interventi di Salvatore Falci, Pino Modica, Stefano Fontana promossi da Domenico Nardone?
C.P.: Il Gruppo di Jartrakor ed il Gruppo di Piombino sono state due esperienze che, come accade spesso fra gruppi “vicini” per affinità poetica, erano in contrasto tra loro, anche perché Lombardo ha sempre avuto una tendenza accentratrice e non aveva vissuto bene l’allontanamento di Domenico Nardone dal centro studi Jartrakor. Forse sarebbe stato più interessante, già allora, analizzare e sottoporre a discussione analogie e differenze e potenzialità di questi due gruppi.
Io, che ho fatto a pieno titolo parte di entrambi, credo di poter dire che la differenza sta nel fatto che le sperimentazioni “|eventualiste” presso il centro Jartrakor erano fondamentalmente laboratoriali, con (pochi) partecipanti motivati e volontari, e un’elaborazione teorica fortemente incentrata sulla psicologia. Gli esperimenti dei Piombinesi, invece, avevano una maggior affinità con indagini di tipo sociologico, spostate nel contesto cittadino e urbano e indirizzate ad un pubblico prevalentemente casuale e ignaro.
Entrambi i gruppi presupponevano il coinvolgimento di altri soggetti nell’elaborazione artistica ma, mentre gli artisti del centro studi Jartrakor coinvolgevano un pubblico cosciente e consapevole di partecipare ad un esperimento, il pubblico coinvolto negli interventi Piombinesi era quello dei passanti, dei clienti di un supermercato, di persone in fila alla posta. Credo che la mia esperienza, e il mio interesse artistico, si situino fra questi due poli.

M.L.: Il punto di rottura tra le due esperienze si stabilirà oltre al diverso orizzonte di ricerca contestuale, laboratorio/ ambiente circostante, anche sul tipo d’interazioni, nella ricerca di una maggiore e minore spontaneità e condizionamento dell’essere implicati in un esperimento? Che valore viene dato al termine “spontaneo”?
C.P.: Lombardo era critico di tutte le tendenze basate sulla “ispirazione” e la valorizzazione espressiva della spontaneità; sosteneva che non si potesse essere spontanei a comando.
L’Arte Eventuale prevedeva che dall’interazione tra un soggetto e un oggetto-stimolo o immagine-stimolo potessero scaturire dei comportamenti non prevedibili. Più i comportamenti erano imprevedibili più si poteva parlare di Arte Eventuale. Ovviamente la scelta dell’oggetto-stimolo era cruciale, e credo che la psicologia proiettiva fosse, a Jartrakor, in generale, il sistema teorico di riferimento. Ma anche i comportamenti “raccolti” dai Piombinesi bypassavano, attraverso, appunto, l’inconsapevolezza delle persone coinvolte, il “paradosso della spontaneità”.

M.L.: Le tue ricerche nel periodo che ha segnato il passaggio dal centro studi Jartrakor al Gruppo di Piombino, sono state rivolte allo “scarto”, mi spiego meglio, mi è parso che nel periodo in cui le tue ricerche erano rivolte all’indagine dell’espressività inconsapevole attraverso i grafismi anonimi, l’aspetto su cui ti concentravi era proprio lo stadio di disattenzione che determinava l’esecuzione di questi segni, è corretto?
C.P: Sì, m’interessava indagare gli aspetti contraddittori tra distrazione e attenzione maniacale al dettaglio, che a volte si verifica nella produzione di scarabocchi. Ma mi interessavano anche gli effetti che proprio un comando paradossale (tipo: “scarabocchia in modo disattento”, o “sii distratto!”), incompatibile con un concetto di spontaneità, potesse innescare sulle persone che lo ricevono.

M.L.: Ciò però non toglie che anche tu hai risposto criticamente alla tendenze artistiche dei primi anni ottanta che si proclamavano in favore della ricerca della spontaneità perduta, ad esempio tramite la serie dei Photo Objects intorno al 1988….
C.P.: Sì, I Photo Objects sono riproduzioni ingigantite di piccoli comportamenti, azioni minuscole ed insignificanti di persone qualunque su oggetti qualunque. Quei lavori avevano alcune caratteristiche tipiche degli anni ottanta, perché grandi, costosi e curati nei particolari (e spesso apprezzati dai collezionisti…).
La mia risposta alla ideologia “spontaneista” degli artisti neo-espressionisti era iniziata anche prima, a partire dal 1982: quell’anno pubblicai sulla “Rivista di Psicologia dell’Arte” un testo dal titolo Funzionalità ed estetica dello scarabocchio, dove era già esplicita una critica alla pittura anni ’80 e alla Transavanguardia. Forse si potrebbe dire che la mia era una reinterpretazione della critica che Sergio Lombardo aveva mosso, nei primi anni ’60, nei confronti dell’Action Painting.

M.L.: Quale era il rapporto fra il lavoro dei Piombinesi e il sistema dell’arte?
C.P.: La mia posizione al tempo e, maggiormente oggi, rispetto alle vicende del passato è un po’ critica e un po’ ambivalente. Ritengo che il ruolo che hanno avuto le gallerie nei confronti del lavoro dei Piombinesi sia stato molto influente, in positivo per fare conoscere un lavoro che altrimenti sarebbe rimasto in un circuito totalmente alternativo, ma anche in negativo perché le ricerche Piombinesi avevano una loro specificità che veniva depotenziata nel momento in cui i nostri lavori entravano in galleria. La grossa novità stava nel rapporto con la strada e con il soggetto qualunque; dare troppa importanza alla mostra in galleria toglieva a quella ricerca tutta la sua eterogeneità, il suo posto nel mondo.
Oggi non stupisce che si possa fare arte ovunque ma negli anni ottanta questo non era così chiaro.
Il messaggio dei Piombinesi voleva ribadire che l’arte può essere portata fuori dagli spazi deputati, fuori dagli atelier e fuori dalle gallerie, con le loro ritualità e i loro corollari.
Le mostre organizzate in galleria forse avrebbero dovuto essere solo degli accessori rispetto ad una sperimentazione radicale che stavamo sviluppando e che purtroppo ha subito un arresto piuttosto precoce. La strategia comunicativa del Gruppo di Piombino è stata indebolita dalle regole del mercato.
Io ho cercato di rispondere a questa influenza della galleria con la serie delle Finestre, su cui ho iniziato a lavorare dal 1988. La mia idea era di portare lo sguardo del pubblico oltre lo spazio della galleria, nei luoghi qualunque intorno ad essa. Le performance, a partire dal 1991, per esempio Visite, che consisteva nel portare direttamente le persone che venivano alla mostra a visitare gli appartamenti qualunque nello stesso palazzo della galleria, eliminava anche la riproduzione fotografica – rendendo sostanzialmente impossibile il rapporto con il mercato. 

M.L.: credi che questo depotenziamento di cui parli sia una delle motivazioni che ha determinato lo scioglimento del Gruppo di Piombino?
C.P.: Veramente io credo che il motivo principale per cui l’esperienza piombinese non è stata riconosciuta in pieno è perché, in seguito alla esperienza del gruppo alla fine degli anni ’80, non c’è stata, da parte degli artisti, una continuità di ricerca che convalidasse, ampliandolo e rendendolo più complesso, il lavoro antecedente.
Ritengo che ci sia stata una sorta di fissazione nei confronti dei risultati ottenuti in quel periodo, e ciò non ha permesso la piena valorizzazione proprio del lavoro che era stato già svolto. Sono convinto infatti che il lavoro di un artista viene sempre reso riconoscibile, comprensibile, significativo, dai lavori successivi di quello stesso artista, dal fatto di tenere vivo non uno “stile”, ma una energia, una attitudine alla ricerca. E’ come se i Piombinesi fossero entrati invece in una sorta di lutto, dopo lo scioglimento del Gruppo; un trauma difficile da superare che ha determinato una sorta di atteggiamento di nostalgia retrospettiva che ha “chiuso” al discorso critico successivo (per esempio, all’enorme e spesso superficiale dibattito, degli anni 90’ e del duemila, sull’arte relazionale, l’arte sociale e l’arte pubblica), un lavoro che era, invece, precoce e promettente.

 

 

 

 

 

 

 

domenica 9 febbraio 2014

Stefano Romano, Incroci, 2003

Stefano Romano
Incroci

galleria Alice&Altrilavoriincorso, febbraio 2003

Invito

 
Questo lavoro si basa sull'idea di relazione che si instaura tra due persone attraverso un gioco, ed è espressione del luogo in cui nasce il pezzo. Il gioco consiste nel colorare quanti più quadrati è possibile all'interno di una forma modulare. I giocatori scelgono un colore e a turno tracciano un segmento all'interno del quadro seguendo le direttrici prestabilite; un quadrato sarà del giocatore che chiude, tracciandolo, il quarto lato. Esauriti i quadrati vince chi è riuscito a colorarne di più. L'immagine finale è costruita dalle persone, dai segni, disegni o parole con cui hanno riempito i propri quadrati, la disposizione delle linee racconta delle azioni compiute durante il gioco. Il quadro è formato dall’insieme di tutti i moduli, giocati o bianchi, disposti nell’ordine scelto dai giocatori. (Stefano Romano)
 
 
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