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giovedì 5 maggio 2016

La perdita di ruolo dell'artista nella società contemporanea

LA PERDITA DI RUOLO DELL'ARTISTA NELLA SOCIETA' CONTEMPORANEA


di Domenico Nardone
in Rivista di Psicologia dell'Arte, nn.14/15, 1987

Fabio Mauri, Cassetto, oggetti in un cassetto, 1959-1960

Sul finire degli anni '50 e l'inizio degli anno '60, la pittura viene ad essere coinvolta in un processo di trasformazione delle coordinate sociali e culturali, tale da metterne drasticamente in discussione il ruolo di tecnica privilegiata della produzione di immagini.
Le regioni dello sguardo, della percezione visiva – oggetto di dominio della pittura – vengono infatti ad essere massicciamente invase dalle nuove e competitive tecniche della produzione industriale di immagini.
Alcuni esempi. Nel 1953 viene prodotto il primo film in cinemascope, tecnica di ripresa e proiezione che schiude al cinema le porte dl grande schermo; nel 1954 prendono il via le trasmissioni regolari della RAI, diffuse su tutto il territorio nazionale. Nuove professioni (grafico pubblicitario, disegnatore di moda, regista di shorts pubblicitari, etc.) si affacciano prepotentemente alla ribalta e tendono a sostituire i pittori nel ruolo di specialisti dell'immagine. Nondimeno, a fronte di questo drammatico “conflitto di ruolo”, la pittura riesce ancora a vivere una delle stagioni più intense e appassionanti della sua storia.

1 – La pop art americana

La pop art americana nasce, per usare un'espressione della Lippard, “all'insegna dell'ottimismo” (1) nonché, potremmo aggiungere, della proclamazione celebrativa.
Gli intenti satirici e di commento sociale, che certa critica vuole rinvenire nella pop americana (2), le sono in realtà alquanto estranei.
La cultura culinaria di cui siamo portatori ci spinge infatti a provare dinanzi alle pietanze della cucina fast-food – hamburger annegati nella senape, patatine fritte in un olio chissà quante volte già usato, panini che il gusto riesce a stento a discriminare dalle carnevalesche versioni in gomma – reazioni di repulsione tali da non poter essere assolutamente superate in intensità da quelle suscitate dalle gigantesche riproduzioni in vinile e stoffa di Oldenburg. Nel contesto culturale di origine, viceversa, è molto probabile che, come sostiene Lucy Lippard, i panini di Oldenburg “fanno venire l'acquolina in bocca” (3).

Mario Schifano, En plein air. Quadro per la primavera, 1964.

La pop americana, in chiave ideologica, è quindi ottimista e celebrativa. Canta, con un entusiasmo privo di mezzi termini, il Mondo Nuovo, la Nuova Frontiera kennedyana, la Ford e la Coca-Cola, l'american way of life; celebra, in definitiva, l'essere all'avanguardia del modo di vivere di tutta una nazione e lo fa con tutta l'orgogliosa baldanza che tale situazione comporta.
L'aspetto della pop art che m'interessa qui sottolineare è tuttavia un'altro. Pop esalta infatti la visione del mondo offerta dalle tecniche di produzione industriale delle immagini. Pop guarda a ciò che le sta intorno attraverso l'occhio magico della televisione, della fotografia, della stampa a rotocalco, dei comics, della cartellonistica pubblicitaria. Lo sguardo pop – freddo, impersonale, distaccato – è, di conseguenza, identico a quello dei nuovi tecnici dell'immagine. Né, d'altra parte, sembra casuale che tutti i principali esponenti del movimento pop americano abbiano alle loro spalle questa nuova formazione professionale: Warhol era un affermato disegnatore di scarpe per riviste di moda, Rosenquist un disegnatore pubblicitario, Lichtestein aveva lavorato come vetrinista, Oldenburg come art-director, etc.
In questi termini il fenmeno pop appare sancire la fine della pittura come tecnica di punta della produzione di immagini: designers, grafici, stilisti travolgono gli steccati che delimitavano lo specifico della pittura e si affermano – apparentemente attraverso questa ma, in realtà, ben al di là di questa – come i nuovi specialisti dell'immagine.

Sergio Lombardo, Bianco 54, collage e smalto su tela, cm. 100x100, 1959

2 – La seconda scuola romana

Osserviamo adesso l'altra faccia della medaglia. La cosiddetta pop romana o gruppo della Tartaruga o, per l'appunto, seconda scuola romana.
Precedentemente, identificando i caratteri di base dello sguardo pop, ho parlato di freddezza, impersonalità e distacco. Orbene, questi stessi caratteri si ritrovano anche nell'ambito del fenomeno ora in esame.
Cesare Vivaldi – il critico che ha per certi versi tenuto a battesimo gran parte degli artisti della seconda scuola romana – a proposito di una mostra di Schifano, scriveva: Il vero oggetto della pittura di Schifano non sono le cose del mondo, bensì la particolare angolazione con la quale l'uomo della civiltà di massa ha finito di vedere le cose del mondo (4).

Ettore Innocente, Regina di fiori, acrilico su tela, cm. 231x110, 1963-1965

L'immagine di un panorama, come appare sulla cartolina illustrata che il turista acquista in ricordo di una gita, non ha più alcun significato particolare, è un ricordo prefabbricato su scala industriale che “passa in memoria” senza ricevere connotazione affettiva, è, per definizione, un'immagine fredda, impersonale, distaccata.
Titina Maselli, intervistata da Maurizio Calvesi, dichiarava: (…) non volevo mettere nella pittura il mio pathos, ma il pathos della cosa stessa. (…) volevo fare una pittura psicologicamente astratta (5).
E Sergio Lombardo, nella presentazione ad una propria mostra: dal mio lavoro ho cercato di togliere l'abilità tecnica e la fantasia. All'abilità tecnica ho sostituito l'esecuzione di un compito qualitativamente non rilevante (come verniciare superfici date con colori dati), alla fantasia ho sostituito l'uso logico di elementi dati (composizioni uniformi, colori di campionario, forme geometriche, etc.) (6).

Cesare Tacchi, Taxi, 1963

Alla sostanziale affinità dei caratteri di base -come appare dalle dichiarazioni su riportate – fa riscontro, tuttavia, la diversitàdi connotazione affettiva, di atteggiamento esistenziale su cui tali caratteri s'innestano.
Il distacco diviene qui drammatica separazione dai significati, la freddezza, impotenza emotiva, l'impersonalità, la traccia di un'esistenza riconosciuta come banale, meccanica, inutile, assurda, ripetitiva.
Lo sfondo culturale su cui si staglia l'esperienza della seconda scuola romana è costituito infatti dalla filosofia esistenzialista, dal Teatro dell'Assurdo, da L'anno scorso a Mariembad, dal Noveau Roman, etc.

Pino Pascali, Gravida o Maternità (1963), Tano Festa, Obelisco (1964)

I pittori romani anche quando, in un'ottica apparentemente pop, riproducono sulla tela le icone di una nostrana e casareccia civiltà dei consumi – il pomodoro sammarzano, il taxi verde e nero, la circolare rossa, il pacchetto di Nazionali, i panorami delle cartoline illustrate, le carte da gioco, etc. - lo fanno senza ottimismo, senza punte d'orgoglio. Al contrario, in quel grande monoscopio rosso dipinto da Schifano e da lui chiamato ironicamente Venere di Milo, c'è piuttosto il gesto estremo e disperato del pittore che si vede sempre più emarginato dai tecnici della produzione industriale di immagini, sull'orlo della “perdita di ruolo”, privato di identità.

Titina Maselli, Il ciclista, 1964

Conclusioni

L'analisi dei tratti salienti del periodo considerato, ed in particolare del fenomeno della “perdita di ruolo”, proposta in questa sede, risponde alla convinzione che tutti gli eventi di rilievo, succedutisi in arte alla pop-art, siano stati e siano tuttora animati principalmente dall'istanza di restituire all'arte e agli artisti un ruolo ed un'identità che la società contemporanea non sembra più disposto a riconoscere loro.

Franco Angeli, La lupa, tecnica mista su tela con tulle, cm. 170x155, 1964

Così, ad esempio, la Transavanguardia, con il suo proporre come valore la libertà espressiva del singolo, il rifiuto del razionalismo e l'irrazionale come definizioni dello specifico dell'arte, così la cosiddetta Pittura Colta, che definisce l'identità dell'arte attraverso la storia dell'arte e offre all'artista il ruolo di vestale di un culto anacronistico e caduto in disuso. Ma anche, e soprattutto, a partire da quella crisi lacerante, comincia a prendere corpo la risposta che, a tutt'oggi, sembra l'unica via d'uscita praticabile: al disperato pessimismo di Schifano che riconosce nel monoscopio televisivo la Venere di Milo del nostro tempo, risponde idealmente l'energica volontà progettuale di Lombardo di creare l'anti-televisore (7).

Renato Mambor, Squadra in riposo, tecnica mista su carta, cm. 70x100, 1965

L'unica possibilità che si offre all'artista di recuperare un ruolo di punta in seno al processo conoscitivo (ovvero di essere all'avanguardia) – e di continuare quindi a rappresentare un valore culturale – passa infatti attraverso una definizione dell'arte che non identifichi più quest'ultima come mera tecnica di produzione d'immagini, bensì come una teoria ed una pratica che abbiano come oggetto la produzione di processi e comportamenti creativi.

Jannis Kounellis, Bar, olio su tela, cm. 50x200, 1965 


Note:

(1) Lippard L.R, Pop Art, Mazzotta, Milano 1978, pag.26.

(2) Cfr. Argan G.C., Il banchetto della nausea in La botte e il violino, 1963.

(3) Lippard L.R., op. cit.

(4) Vivaldi C., testo in catalogo della mostra personale di Mario Schifano, galleria Il Punto, Torino, 1964.

(5) Le dichiarazioni sono tratte dall'intervista di Maurizio Calvesi a Titina Maselli in Marcatrè, Milano, 1964.

(6) Lombardo S., in Sergio Lombardo, Di Maggio, Milano 1974.

(7) Lombardo S., conversazione privata.

mercoledì 17 febbraio 2016

Non serve un critico

Non serve un critico
di Cesare Pietroiusti e Alfredo Pirri

Il rapporto tra artista e critico è concepibile soltanto come quello fra compagni di strada e creatori di idee e di forze.
Non serve un critico che vagabonda fra opere e linguaggi mascherando il proprio non essere con il non essere del mondo.
Non serve un critico compilatore di novità successive alla Transavanguardia e generico accertatore di cambiamenti di clima.
1 - l'impegno etico del fare rispetto alla suprficialità estetica dell'immaginare;
2 - la volontà di costruire un rapporto diretto con l'esperienza e con il lavoro contrapposto all'omologazione;
3 - la freddezza ascetica di un progettare piuttosto che il calcolo della freddezza critica;
4 - un tendere e un direzionarsi rispetto al nomadismo e all'intertestualità;
5 - il rapporto riconoscente e costruttivo con la realtà, dal sapere e potere degli artigiani al sapere e potere dell'interazione fra uomini e fra uomini e cose.

in Roma Arte oggi, a cura di Ennio Borzi e Mirella Chiesa, introduzione di Filiberto Menna, testo critico di Paolo Balmas, Politi Editore, Milano 1988.


Ennio Borzi era un imprenditore e collezionista romano - già socio di Bruno Sargentini nella galleria L'Attico - che intendeva costituire a Roma un museo di arte contemporanea dedicato agli artisti che vivevano e operavano nella città. In questa prospettiva aveva acquistato, tra gli altri, alcuni lavori di Pietroiusti dallo Studio Casoli poco dopo la mostra del gruppo nel novembre del 1987. Quando l'anno successivo Ennio Borzi pubblicò il catalogo della sua collezione relativo agli anni '80, Pietroiusti e Pirri decisero di pubblicarvi il testo scritto a due mani sopra riportato.







Simona Antonacci, L’altra Roma negli anni Ottanta. L’Eventualismo e il Gruppo di Piombino, un confronto.

Simona Antonacci, L’altra Roma negli anni Ottanta. L’Eventualismo e il Gruppo di Piombino, un confronto, tesi di specializzazione in Storia dell'arte, Università degli studi di Siena, Siena 2011.


La tesi ricostruisce e mette a confronto la storia di due esperienze che si sviluppano a Roma nel corso degli anni Ottanta: quella del Centro Studi di Psicologia dell’Arte Jartrakor, fondato da Sergio Lombardo nel 1977 nel suo studio di via dei Pianellari, e gli interventi urbani del Gruppo di Piombino, il quale a partire da Roma ha una diffusione a livello nazionale fino all’inizio degli anni Novanta.
Il primo, nel quale si formano Anna Homberg, Domenico Nardone e Cesare Pietroiusti, si configura da subito come uno spazio di ricerca e sperimentazione intorno al rapporto tra arte e scienza, da cui prende forma la Teoria dell’Evento. Formulato sulle pagine della “Rivista di Psicolgia dell’Arte”, l’Eventualismo concepisce l’opera come un evento che scardina i modelli percettivi omologati: le opere sono stimoli da sottoporre al pubblico come esperimenti al fine di attivare risposte individuali differenziate, che vengono indagate e analizzate attraverso un rigoroso metodo scientifico.
Motivato a portare questo tipo di sperimentazione nello “spazio della realtà”, Nardone si distacca da Jartrakor nel 1983, per fondare, insieme a Daniela De Dominicis e Antonio Lombardo, la galleria Lascala: il suo progetto di scardinare i confini tradizionali dello spazio espositivo si evolverà con Lascala c\o, concepita come spazio espositivo itinerante accolto, in una prima e unica tappa, nel ristorante Il desiderio preso per la coda. L’ipotesi “militante” condotta da Nardone – che opera a un tempo come gallerista, critico e compagno di strada degli artisti - si incontra con l’attività di tre giovani artisti piombinesi che, nella provincia toscana, avviano una sperimentazione nello spazio urbano. Svincolati dall’interesse per la riaffermazione del paradigma del quadro e per gli aspetti soggettivistici, espressivi, stilistici del fare arte, Salvatore Falci, Stefano Fontana e Pino Modica sono impegnati in operazioni di osservazione, e poi stimolazione, dei comportamenti spontanei del pubblico. Tra il 1983 e il 1991 il Gruppo di Piombino, formato dai tre piombinesi più Cesare Pietroiusti che si unirà nel 1987, mette in atto esperimenti nello spazio urbano secondo una modalità di intervento subliminale con cui il pubblico interagisce in modo inconsapevole. A partire dal 1987, grazie all’incontro con il gallerista milanese Sergio Casoli, il gruppo partecipa alle principali mostre dedicate alla giovane generazione “emergente”.

Nel ricostruire, nei primi due capitoli monografici, la storia di questi due fenomeni sia mediante l’approfondimento delle teorie di riferimento, sia la ricognizione sulle opere e sugli eventi espositivi significativi, la tesi propone nel terzo capitolo un confronto tra le due. Entrambe le esperienze costruiscono la propria poetica su un versante antitetico rispetto ai movimenti “ufficiali” che animano il panorama artistico della capitale, attraversata da fenomeni come la Transavanguardia, il gruppo di San Lorenzo e l’insieme delle esperienze citazioniste, accomunate dal recupero di mezzi tradizionali e dal ritorno all’opera come oggetto finito e autoriale: a differenza di queste sia l’Eventualismo che il Gruppo di Piombino propongono una linea “di avanguardia” che, attraverso un modello operativo di gruppo e un’elaborazione teorica rigorosa e condivisa, rappresentano un’alternativa vitale quanto celata nel panorama romano. Distanti dal punto di vista dell’ambito d’azione e nelle pratiche di intervento, i due fenomeni condividono il progetto di attivare nell’individuo un’esperienza creativa libera dai comportamenti stereotipati imposti dalla società dei consumi: all’artista il compito di attivare questo processo attraverso un azione che, nel recuperare alcune prassi partecipative degli anni Settanta (sebbene mondate da intenzionalità dichiaratamente ideologiche o politiche), anticipa le pratiche “relazionali” che si affermeranno con pienezza negli anni Novanta.