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mercoledì 26 maggio 2021

Salvatore Falci, "Conwith", 2019

 

SALVATORE FALCI, CONWITH 

galleria Casoli-de Luca, Roma, settembre 2019

 

Ponte Sant'Eufemia, 1999-2019

comunicato stampa

CONWITH è un gioco di parole bilingue che incarna il principio cardine della quarantennale ricerca di Falci nel campo delle arti visive: la necessità dell’altro nell’atto della creazione artistica, la con-presenza come elemento imprescindibile dell’opera d’arte.

“La sua teoria parte dal principio del non intervento diretto dell'artista nell'opera”, scrive Roberto Pinto nel 1994, nella sua introduzione all’opera dell’artista. “Studia, e mette in atto, dei progetti dove interviene solo nella fase di preparazione, in modo da non essere mai lui stesso da determinante del risultato. Questo è creato, in modo del tutto spontaneo e naturale, dalla gente comune durante lo svolgimento delle normali attività. Questo è infatti ciò che interessa all'artista: raccogliere le testimonianze del quotidiano, quei piccoli gesti apparentemente insignificanti, ma che parlano della vera natura dell'individuo, quando è libero e inconsapevole”. Per Falci è importante rendere visibile l’altro, assistere all’evento del caso, che prende vita dall’incontro indesiderato tra soggetto e oggetto. Per questo motivo, l'artista è obbligato a studiare procedimenti che, a un primo sguardo, si mostrano asettici, lontani dall’idea comune di opera d'arte. Solo in un secondo tempo, a seguito dell'intervento esterno dell’uomo, possono definirsi compiutamente Arte. Proprio questa intenzione è l’origine della ricerca condivisa con Pino Modica e Stefano Fontana, ai quali, più tardi, si aggiunge Cesare Pietroiusti, dando vita nei primi anni Ottanta, al sodalizio artistico identificato come Gruppo di Piombino. Nel 1983 progettano insieme un’opera sotto forma di indagine sull’ambiente, che analizza i rapporti tra persone e oggetti, attraverso gesti quotidiani. L’esperimento SOSTA 15 MINUTI, successivamente presentato ai Giardini della Biennale del 1984, invita i passanti a sedersi su delle sedie, nonostante queste siano al tempo stesso limite e oggetto da contemplare. Da questo momento comincia una sorta di “colloquio urbano” in cui gli artisti si immettono nel flusso della comunicazione degli abitanti della città, nei luoghi comuni di scambio sociale, registrando le risposte. Non sono i comportamenti eclatanti il perno dell’interesse di Salvatore Falci; l’artista non vuole evidenziare ciò che è straordinario, ma si concentra sull’annotazione dei comportamenti “banali”. Da questo percorso di ricerca, nel 1984 nascono gli studi sui Vetri, in cui le lastre, sovrapposte ai tavoli di uso pubblico, sono verniciate di nero e ne registrano i graffi e le usure. Nel 1986, emerge l’esigenza di introdurre nella riflessione anche gli arti inferiori: con i suoi Pavimenti, Falci non utilizza più vetro ma pedane con strati di vernice. In occasione della mostra alla galleria CASOLI • DE LUCA, l’artista ha ripensato i luoghi della sua indagine artistica, installando l’opera Pavimento Oro Liceo Lorenzo Lotto (2019) in un una scuola di Trescore e il Pavimento Argento Smerigliatura Stillegno (2019) in una fabbrica: due spazi che accolgono vite tra loro differenti e raccontano il vissuto del luogo senza volerne realizzare un recupero, cambiando il punto di vista per sperimentare nuovi esiti.

Veduta dell'istallazione

I Pavimenti sono progettati in modo da rilevare per scratching solo tracce anomale o particolarmente intese - come l’azione di strusciare, cadere o graffiare - mentre non vengono rilevate le impronte del normale camminare. Il risultato rimanda a una forma di espressionismo attivata involontariamente dal pubblico. Articolano il percorso espositivo anche le Casse di imballaggio, opere in legno, masonite e cera che costituiscono una variante dei Pavimenti: 5 elementi che nel 1988 furono utilizzati per imballare i lavori che Stefano Fontana inviò alla Biennale di Venezia. Da questa linea creativa e comportamentale, nascono i primi Letti (1988), in spugna sintetica e velluto, opere sensibili che registrano fedelmente perfino un’impronta digitale e permettono di aggiungere un’azione sopra l’altra. Installati in una discoteca, in una garçonniere e in una palestra, vengono declinati anche nella variante Puff (1989).

                                                Puff rosso, tecnica mista, 1989

Per CONWITH, l’artista ha deciso di rigenerare l’Erba del Ponte di Sant’Eufemia, un lavoro presentato alla Biennale del 1990. La rigenerazione nasce dall’esigenza di coniugare le esperienze della traccia, al di là della presenza fisica in cui permane una memoria verificabile.

Questa riflessione trae origine da Ponte di Venezia (1990), nata dal desiderio di realizzare opere capaci di visualizzare il processo della disseminazione e della dispersione. Tavole di forex con una miscela di segatura e semi, ricoprono il ponte Sant’Eufemia a Venezia per 24 ore. Il composto viene disseminato e disperso dai passanti e successivamente l’artista preleva i pannelli cosi connotati, li trasferisce in una serra e li annaffia fino a quando l’erba non cresce e non realizza una visualizzazione del vissuto trascorso.

La lunga carriera di Salvatore Falci diventa punto d’osservazione privilegiato del comportamento umano: le abitudini cambiano da luogo a luogo, da popolo a popolo. L’artista comincia così ad analizzare le mutazioni di queste abitudini comuni che presenta nella video installazione Silent Communication (1998) presente in mostra a sigillo di una ricerca silenziosa e costante.L’artista promuove da sempre incontri e seminari dove cerca di coinvolgere lo spettatore per renderlo consapevole del ruolo attivo che potrebbe avere nello sviluppo delle teorie artistiche e di conseguenza nell'evoluzione della società.


mercoledì 31 marzo 2021

Simona Antonacci, Mi sono sempre chiesta cosa facciano le opere quando vanno a dormire

Mi sono sempre chiesta cosa facciano le opere quando vanno a dormire.
di Simona Antonacci

pubblicato in catalogo della mostra Salvatore Falci, Conwith, galleria Casoli-de Luca, Roma, 2019

Il prato che ha invaso la “sala grande” della galleria Casoli De Luca a Roma, in occasione della mostra di Salvatore Falci, ci porta indietro di quasi trent’anni. È il 1990 quando l’artista dissemina segatura e semi su una lastra di forex su un ponte di Venezia per 24 ore. Il passaggio di persone e oggetti modifica, trasforma e diffonde questa miscela, che viene poi umidificata, trasferita in serra, innaffiata e riportata su una lastra. Nasce l’erba.

Realizzata in occasione della XLIV Biennale di Venezia, Aperto 90, l’opera viene esposta nella sede dell’Arsenale e poi riallestita l’anno successivo nel nuovo spazio espositivo di Domenico Nardone, la galleria Alice a via di Monserrato1.

                   Salvatore Falci, Ponte Sant'Eufemia, galleria Casoli-de Luca, Roma, 2019                                              
Ponte Sant’Eufemia è un’opera cardine della fase “piombinese” di Falci e allo stesso tempo apre, nella riproposizione nella Galleria Casoli-De Luca di Roma, nuove possibilità di senso.
In linea con i principi di base della proposta piombinese, l’opera si configura come un esperimento che presuppone un progetto, una reazione differenziata e una verifica rigorosa2. In particolare, come già nei primi lavori esposti nella Galleria Lascala di Domenico Nardone, Falci propone un arretramento dell’autore in favore di una creazione condivisa: nella negazione della propria presenza, l’artista propone una situazione-stimolo di carattere relazionale. Se nella prima fase della sua produzione (Itaj-doshin, Pavimenti, Letti, Puff) gli oggetti dislocati da Falci accolgono le tracce del corpo umano in movimento o in posizione statica, con le serie Vasche e Fiumi e con Ponte Sant’Eufemia il campo d’indagine si estende: l’attenzione si rivolge a contesti in cui l’azione dell’uomo si ibrida con quella degli elementi naturali e con quella degli altri uomini.
Traslitterando nel campo dell’arte un procedimento che rimanda al metodo sperimentale scientifico, Falci indaga i principi della dispersione e dell’entropia, cercando di contraddirli: la realtà si rivela percorsa da dinamiche invisibili di cui Falci prova a cogliere il senso ritmico e l’andamento, replicando il metodo dello scienziato nel tentativo di trovare regole nel caos dell’esistenza.
I movimenti e i gesti delle persone, così come il soffiare del vento e la pioggia, sono dunque gli “agenti” involontari che definiscono una configurazione estetica unica e irripetibile: è questa che, in un equilibrio unico di caso e caos, viene fissata nel tempo, dislocata nello spazio discorsivo del sistema dell’arte e resa potenzialmente imperitura. Un cambio di campo semantico che trasforma la natura e il valore di questa “creatura” definitivamente.
Ma poi la mostra finisce e per l’opera, per ogni opera, inizia una fase che la porta lontana dalle pareti del museo che gli hanno attribuito quel valore. Cosa accade quando l’opera entra in quel letargo – lungo trent’anni in questo caso – in cui non è allestita?
Mi sono sempre chiesta cosa facciano le opere quando vanno a dormire. Se sono ancora “vive”, se sono ancora “loro” quando stanno chiuse in deposito o in una galleria o in uno studio, quando insomma sono sottratte a quello sguardo che ha il potere di conferirgli di nuovo significato, di riattivarne il potere. Le possiamo considerare ancora opere d’arte? In questi anni quale è stata la “natura” dell’erba bruciata di Ponte Sant’Eufemia?
Per quanto riguarda tanti interventi “concettuali”, sappiamo che è il progetto a trattenere la memoria dell’opera “in potenza”, progetto che riposa nel più evocativo dei casi tra le carte dell’artista e, più frequentemente oggi, nelle cartelle di un pc. Ma mi sembra un luogo freddo in cui stare e poi nessuna matrice “fisica” dell’opera c’è. C’è la memoria del progetto, dell’idea, ma nulla che ne trattenga, potremmo dire, l’anima.
E forse anche Falci ha pensato questo quando, invece di scegliere la soluzione (forse più scontata) di lasciare solo la traccia immateriale di un progetto da ripetere occasionalmente nel tempo, ha deciso invece di bruciare i residui dell’erba e di conservarli per quasi trent’anni. Era importante, infatti, che la nuova installazione fosse prodotta proprio a partire da quell’erba sedimentata in quel momento su quel ponte di Venezia, in quanto portatrice di una “memoria” specifica: nell’erba bruciata è la traccia di ciò che è stato, il principio simbolico e fisico di una continuità nel tempo, della persistenza di una traccia mnemonica, l’engramma di un evento, potremmo dire.
E se questa scelta può sembrare secondaria, o addirittura romantica, svelando un desiderio di eternità per un intervento originariamente effimero, in realtà questo scarto si rivela cruciale e offre lo spunto per una comprensione più profonda del lavoro e del ruolo che Falci immagina per sé e per l’opera.
La possibilità di “ri-attivare” l’opera, infatti, ha a che fare non solo con gli aspetti sottesi alle pratiche del re-enactment e con il superamento di un’idea di opera sempre uguale a sé stessa: nella proposta di Falci l’aspetto rilevante è che il centro non è nel progetto, ma nell’evento. È per questo che le sue opere (così come quelle realizzate dagli altri artisti del gruppo di Piombino) sono spesso difficili da definire e inquadrare: perché scivolano via sia dalle maglie delle pratiche concettuali, che da quelle dell’arte pubblica tout court e relazionali o proto-relazionali, pur stando a contatto con tutte loro. In questo muoversi in modo non convenzionale sulla soglia dei campi e delle definizioni trovo molto di “piombinese”.
Del resto è proprio in uno spazio di frontiera che l’esperienza dei Piombinesi ha sempre agito: lontani dall’idea (peraltro predominante in quei controversi anni Ottanta in cui nasce il gruppo) di un’opera d’arte definita e chiusa, autoreferenziale; lontani dall’approccio personalistico dell’artista come “autore” e “creatore” e lontani anche da un modello organizzativo statico e gerarchico, propongono invece una interpretazione collettiva e mobile dei modelli di gruppo e di galleria (che, non a caso, tenta di andare “fuori da sé”, nello spazio del quotidiano). E, soprattutto, testardamente intenzionati a situare la pratica artistica in uno spazio liminale e anarchico di “non piena consapevolezza”, di ambiguità dell’intervento, che è definito infatti subliminale, perché finalizzato a determinare una reazione spontanea e non convenzionale.
Oltre a tutto questo Ponte Sant’Eufemia nella sua versione del 2019 offre una ulteriore indicazione sulla figura dell’artista: non solo attivatore ma anche e soprattutto custode. C’è qualcosa di molto intimo nell’atto di raccogliere e preservare le tracce di quell’evento di trent’anni fa, che avvicina la figura dell’artista più a quella del curatore che a quella del creatore. Che in fondo mi fa pensare a quella di un padre affettuoso che rimbocca le coperte all’opera-evento per custodirla nel tempo. Anche quando dorme.


Note:

1 Salvatore Falci. Ponte Sant'Eufemia, aprile 1991. La galleria Alice viene aperta dopo l’esperienza milanese in cui il gruppo di Piombino collabora con il gallerista Sergio Casoli.

2 «Il nocciolo della teoria che andavo elaborando verteva sulla possibilità di produrre un’arte sperimentale, la cui efficacia fosse cioè verificabile, analogamente a quanto avviene per le ipotesi scientifiche, attraverso specifiche procedure» D. Nardone in Ritorno a Piombino. Salvatore Falci, Stefano Fontana, Pino Modica, Domenico Nardone, Cesare Pietroiusti, a cura di Domenico Nardone, catalogo della mostra presso galleria Primo Piano, gennaio-febbraio 1999, Roma, pag. 4.


venerdì 26 marzo 2021

In morte di Massimo Trotta


Il 25 marzo è morto di covid Massimo Trotta. Conobbi Massimo sul finire degli anni '80, quando, assieme a Pierfrancesco Pompei e Marco Rossi Lecce, stava per aprire la galleria “Il Campo”. Iniziammo quasi da subito una frequentazione quotidiana – andavamo a pranzare da Armando, vicino a piazza del Pantheon dove si trovava la loro galleria – e Massimo si appassionò entusiasticamente al lavoro del gruppo di Piombino che volle invitare al completo nella collettiva d'apertura della galleria. La sua ancorché breve esperienza di gallerista (conclusasi nel 1992) rimase da quel momento sempre fortemente legata al Gruppo di Piombino nell'ottica militante dei nostri “anni buoni”. Fu tra gli organizzatori della fondamentale mostra “Storie” (1991) e ospitò nella sua galleria le mostre personali di Pino Modica (Buono di prenotazione d'acquisto, 1992) ed Henry Bond (1992). Con lui se ne va un amico sincero con cui ho condiviso le battaglie e gli anni migliori della mia vita. Che la terra ti sia lieve, Massimo.

lunedì 15 marzo 2021

Giulia de Santis, Il Gruppo di Piombino e l’arte relazionale dagli anni sessanta ad oggi, tesi di diploma, Accademia Albertina di Belle Arti Torino, 2021.

Giulia de Santis, Il Gruppo di Piombino e l’arte relazionale dagli anni sessanta ad oggi, tesi di diploma, Accademia Albertina di Belle Arti, Torino, 2021.

                                                                  Introduzione 

Con l’elaborazione della tesi dal titolo Il Gruppo di Piombino e l’arte relazionale dagli anni sessanta ad oggi si è voluto esaminare, approfondire e valorizzare l’esperienza del Gruppo dalla metà degli anni Ottanta fino agli inizi anni Novanta, permettendomi di ripensare a come sono riusciti, in maniera soddisfacente, a ragionare sui problemi legati alla realtà che li circondava. L’esperienza piombinese fu il risultato della convergenza di due contesti operativi: il Gruppo 5 a Piombino e il critico d’arte Domenico Nardone a Roma, affacciatosi dapprima al Centro di Studi Jartrakor, fondato da Sergio Lombardo, per poi - necessitando di portare la sperimentazione artistica fuori dai luoghi deputati all’arte, in spazi in cui le convenzioni d’uso e di contemplazione stereotipata dell’oggetto non possano inibire i comportamenti individuali – allontanarsi dal Gruppo di Jartrakor e fondare la galleria Lascala a Roma nel 1983. Nell’elaborato di tesi si vuole inoltre ricostruire un ante e un post Gruppo di Piombino, analizzando gli esordi dell’arte pubblica in Italia nei decenni Sessanta e Settanta con i modelli delle prime mostre e happening nello spazio urbano, come Parole sui muri (1967-1968), Arte Povera + azioni Povere (1968), Al di là della pittura (1969), Campo urbano. Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana (1969) ed infine Volterra ’73 (1973). Ho trattato delle posizioni militanti tra arte e politica che animarono gli anni Settanta e della stagione dei collettivi, tutti formatici per condivisione di ideali politici: Il Collettivo Autonomo di Porta Ticinese, Gli Ambulanti, Il Gruppo Salerno 75 e il Laboratorio di Comunicazione Militante. Questi risultarono i gruppi più attivi, la cui volontà comune fu di riesaminare le logiche dell’autorialità, di dare sostanza alla parola società, di estendere la creatività ad una collettività chiaramente identificata nei soggetti sociali, di criticare la cultura istituzionale e di inventarsi luoghi alternativi di produzione (1). Dall’esperienza di Maria Lai ad Ulassai nel 1981 con Legarsi alla montagna venne rimesso in gioco l’assunto del coinvolgimento attivo di un pubblico percepito come “soggetto”, dopo la transizione spartiacque incarnata dalla crisi di ideologie e dai vari ritorni alla pittura ed al privato (2); compaiono riscritture dei nessi tra artista, pubblico e contesti territoriali. Queste esperienze “relazionali” – di cui fanno parte la sopracitata Maria Lai, il Gruppo di Piombino e Wurmkos - possono essere considerate dei “ponti” che traghettano dagli anni Settanta agli anni Novanta, nei quali avviene la diffusione di pratiche relazionali ed urbane, con personalità come Umbaca, Progetto Casina, Premiata Ditta, Artway of Thinking, Emilio Fantin, Eva Marisaldi, Cesare Viel, Marco Vaglieri, Annalisa Cattani, Marianne Heier, Nicola Pellegrini, Ottonella Mocellin, il gruppo Stalker, la curatela del collettivo a.titolo e molti altri. Si ridesta l’interesse per lo spazio cittadino in concomitanza con i cambiamenti sociopolitici su scala nazionale ed internazionale e si ritrovano affinità e discontinuità con le esperienze degli anni Sessanta e Settanta. L’elaborazione arriva fino agli anni più recenti in cui vi è un “ritorno” di azioni partecipative ed urbane (3). Ho voluto procedere per ordine cronologico per poter osservare i mutamenti in base alle esigenze storiche, attraverso i passaggi generazionali degli artisti, focalizzandomi su alcuni casi studio scelti in base alla loro rilevanza storica. Ho reperito diverso materiale fotografico messo a disposizione da diversi autori citati nell’elaborato, ringraziando in particolar modo Salvatore Falci, Stefano Fontana, Pino Modica, Cesare Pietroiusti e Domenico Nardone nella ricostruzione della loro esperienza piombinese. 

Note
(1) Alessandra Pioselli, L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 ad oggi, Johan & Levi editore, 2015, p 59
(2) Alessandra Pioselli, Arte e scena urbana. Modelli di intervento e politiche culturali pubbliche in Italia tra il 1968 e il 1981, in L’arte pubblica nello spazio urbano, a cura di Carlo Birrozzi e Martina Pugliese, Bruno Mondadori, 2007, p.31 
(3) Alessandra Pioselli, L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 ad oggi, Johan & Levi editore, 2015

                                                 SOMMARIO

INTRODUZIONE..........................................................................4

CAPITOLO I...................................................................................7

1.2 Modelli di mostre e di happening nello spazio urbano...............10

1.3 La militanza tra arte e politica: la stagione dei collettivi............23

CAPITOLO II..................................................................................37

2.2 Non c’è arte senza politica: Maria Lai, Legarsi alla montagna..39

2.3 Le esperienze del Gruppo di Piombino.......................................44

CAPITOLO III................................................................................81

3.2 Gli esordi di Wurmkos................................................................82

3.3 Relazioni, deambulazioni ed identità nella città postindustriale.85

CONCLUSIONE.............................................................................112

BIBLIOGRAFIA.............................................................................114

SITOGRAFIA..................................................................................116

APPENDICE....................................................................................117


giovedì 6 febbraio 2020

Alessandra Pioselli, La partecipazione involontaria. Inizi e lasciti del Gruppo di Piombino.

La partecipazione involontaria. Inizi e lasciti del Gruppo di Piombino
di Alessandra Pioselli
 
Relazione per il convegno “L'Arte Relazionale prima di Nicolas Bourriaud. Gli anni '80 e '90 in Italia: Gruppo di Piombino – Progetto Oreste -Stalker”, Macro Asilo, Roma 16 marzo 2019.
Pubblicato negli Atti del Convegno, a cura di Francesca Franco, Macro Asilo Diario, fasc. 16/03, Roma 2019.


«Negli anni sessanta e settanta chi puntava su elementi di partecipazione e sugli aspetti cognitivi dell’opera lo faceva per mutare il contesto: Falci, Modica, Pietroiusti e Fontana si accontentano di rilevarlo»1. Nonostante il “coinvolgimento delle persone” rimanga focale nella genesi del lavoro dei Piombinesi, per comprendere la misura di tale distanza tra le pratiche artistiche nella stagione della “partecipazione popolare” e l’approccio dei quattro artisti, che si presentano per la prima volta assieme come gruppo nel 19872, bisogna fare un passo indietro fino alla realizzazione della prima e unica opera collettiva di Salvatore Falci, Stefano Fontana e Pino Modica. Si tratta delle cinque sedie di colori diversi collocate in strada a Populonia nel 1983, con un cartello che ne indica l’uso, Sosta 15 minuti, e portate abusivamente l’anno dopo alla Biennale di Venezia, nei giardini. Nell’autunno del 1984 alla galleria Lascala di Roma, aperta da Domenico Nardone con Daniela De Dominicis e Antonio Lombardi, le sedie sono esposte assieme a grafici statistici sul genere e il numero di persone che le hanno utilizzate in base al colore. Come le sedie, anche gli oggetti d’uso comune alla base di altre opere come i Contenitori ideologici (1985) di Fontana, il Rilevatore estetico (1985) di Modica o di Itaj-Doshin (1984-85) di Falci,3 dichiarano una funzione quotidiana. Le persone li adoperano con facilità senza avere del tutto contezza, tuttavia, che questi oggetti possiedono una “doppia personalità”, come scrive Nardone4. Per quanto quotidiani, essi servono a stimolare e a registrare gesti spesso involontari, comportamenti inconsapevolmente creativi compiuti dalle persone. Nardone innesta sulla storia dei Piombinesi l’esperienza del Centro Studi Jartrakor da cui si distacca nel 1983, ritenendo che “la produzione di eventi” andasse testata in contesti fuori dalla galleria e con pubblici non allertati5. Nardone legge nel lavoro di Falci, Modica e Fontana, la possibilità di trasferire il discorso in una dimensione più aperta e urbana. L’esperienza di Jarkatror è condivisa da Cesare Pietrouisti.6 Con N Titoli (1987), l’artista si sposta fuori dal contesto della galleria con una processualità vicina a quella dei tre Piombinesi: nel bar Il desiderio preso per la coda di Roma, dove Nardone trasferisce l’attività espositiva alla fine del 1985, l’artista lascia sui tavolini tovagliette di carta per poi esporle come erano state scribacchiate dagli avventori. Se le differenze tra i quattro Piombinesi non sono affrontabili in questo breve testo, sia sufficiente considerare che nelle operazioni di questo breve giro d’anni la partecipazione delle persone avviene involontariamente. L’involontarietà garantisce che il gesto sia spontaneo. L’artista registra. L’opera è concepita come un esperimento, la cui efficacia è pertanto «verificabile, analogamente a quanto avviene per le ipotesi scientifiche, attraverso specifiche procedure»7. Le operazioni sociali degli anni settanta rimanevano spesso fuori dalla cornice espositiva e perseguivano una partecipazione consapevole, con finalità spesso pedagogiche o politiche: le energie che si sarebbero liberate coscientemente avrebbero trasformato l’individuo riverberando sul corpo sociale, con prospettive di cambiamento. Le azioni mimetiche dei Piombinesi puntano a rilevare dati più che proporre mutamenti sociali: annotano comportamenti, sollecitano meccanismi non volontari, slittamenti della coscienza. «La trasformazione dell’esperienza quotidiana […] è ottenuta a mezzo di strategie morbide» e la “modificazione subliminale” è preferita al modello dell’agit-prop, chiarisce Nardone8. Per il critico l’arte conserva una funzione sociale nel provocare «trasformazioni in ambiti volutamente circoscritti e locali dell’esperienza»9. Il soggetto sostituisce la classe sociale, la valenza psicologica quella sociologica. Enrico Crispolti lo nota prontamente nel 1985, cogliendo l’ “azione partecipata” di Falci, Fontana e Modica in un momento in cui l’attenzione per questo tipo di operatività cooperativa è del tutto storicamente calato, sottolineando che nel caso dei tre autori “la partecipazione è comportamento, psicologica”10.

I Piombinesi calibrano la distanza anche dalle coeve tendenze neo-espressioniste, post-astrattiste e citazioniste che postulano in vari modi, tra gli altri aspetti, il ritorno all’immagine. Falci ricorda il bisogno di andare nella direzione contraria all’affermazione dell’autorialità dell’artista, identificata nei cosiddetti “ritorni alla pittura”, verso una dimensione più aperta e non competitiva, verso l’altro11. Pietroiusti domanda come misurarsi con i ritorni all’immagine pittorica12. Gli artisti del Gruppo di Piombino non rinunciano all’immagine ma provano che può essere il risultato della gestualità quotidiana. La processualità diventa di nuovo centrale. Le operazioni dei Piombinesi si svolgono in luoghi extra-artistici. In galleria si verificano i dati ottenuti e i materiali manipolati dalle persone. L’artista è artefice del prelievo del dato. Falci lo chiama ready-made esperienziale13. L’opera è frutto di una serie di parametri e il caso gioca un ruolo rilevante. La matrice è nel Situazionismo e altrettanto nelle pratiche concettuali. Questo modo di procedere torna a mettere in dubbio lo statuto dell’autore, dell’opera e della cornice espositiva, come fa Sosta 15 minuti, operazione “illecita” all’interno della cornice istituzionale. Alla metà degli anni ottanta sono diverse le voci che si allontanano dai postmodernismi pittorici e affini. Tra il 1985 e il 1988 diventa più evidente. Nardone difende il progetto moderno dell’avanguardia: una presa di posizione militante sul ruolo dell’opera e dell’autore contraria alle formulazioni citazioniste e transavanguardiste, che si esercita attraverso una strategia di coesione tra artisti, critico e gallerista. Gli artisti del Gruppo di Piombino partono a una data precoce e con le peculiarità di cui si è detto. Nella prima metà degli anni ottanta essi sono tra i pochi, se non gli unici, a testare in modo programmatico la pratica nello spazio urbano. Il lascito dell’esperienza dei Piombinesi sta nel considerare l’artista colui che sollecita comportamenti prima che produrre oggetti e l’opera un processo relazionale, nella messa in crisi dell’autosufficienza dell’opera, nella creazione di micro-situazioni, nel valore dato agli elementi del vissuto e del quotidiano. La dimensione relazionale delle pratiche diventa evidente in Italia tra gli ultimi anni ottanta e la prima metà dei novanta, ma la definizione di “arte relazionale” non tiene conto della pluralità delle interpretazioni. Le esperienze italiane esprimono, oltre a ciò, caratteristiche distintive rispetto alla nota argomentazione di Nicolas Bourriaud14. Ancora la “relazionalità” diventa qualcosa di diverso rispetto alla visione del Gruppo di Piombino. Comunque, non si sentirà più la necessità di ribadire la distanza dagli anni settanta.


Note
1 A. Vettese, Falci, Fontana, Modica, Pietroiusti, in “Flash Art”, Milano, n. 188, gennaio-febbraio 1988, recensione della prima collettiva dei quattro artisti in galleria presso lo Studio Casoli e Il Milione di Milano.

2 Pietroiusti si unisce a Falci, Fontana e Modica nel 1987, in occasione della mostra presso lo stand di Sergio Casoli alla II Internazionale d’Arte Contemporanea di Milano, quando i quattro artisti sono presentati per la prima volta come Gruppo di Piombino.

3 Nel 1985 Nardone propone le prime mostre personali in galleria dei tre di Piombino, con questi lavori.

4 D. Nardone, Ritorno a Piombino (Roma, Galleria Primo Piano, gennaio-febbraio 1999), Galleria Primo Piano, Roma 1999, s.p.

5 Il Centro Studi Jarkator è fondato da Sergio Lombardo a Roma nel 1977 con l’aiuto di Cesare Pietroiusti e di Anna Homberg. Lombardo fissa i principi dell’Eventualismo cui Nardone dà un fondamentale apporto sulle pagine della Rivista di Psicologia dell’Arte, dopo aver avvicinato il Centro nel 1979.

6 Cesare Pietroiusti vi partecipa fino al 1985.

7 D. Nardone, Ritorno a Piombino, op. cit., s.p.

8 D. Nardone (a cura di), Salvatore Falci Stefano Fontana Pino Modica Cesare Pietroiusti (Firenze, Galleria Vivita - Milano,  Studio Casoli, 6 febbraio - 2 aprile 1988), Galleria Vivita-Studio Casoli, Firenze-Milano 1988, p. 8.

9 Ivi, p. 9.

10 E. Crispolti (a cura di), Una nuovissima generazione nell’arte italiana (Siena, Fortezza Medicea, agosto 1985), Edizioni Periccioli, Siena 1985, s.p. Crispolti avvertì la necessità di creare in mostra la sezione Azione partecipata apposta per i tre artisti.

11 Salvatore Falci, testimonianza rilasciata a chi scrive, 2013, in A. Pioselli, L’arte nello spazio urbano. L’esperienza italiana dal 1968 a oggi, Johan&Levi, Monza 2015, p. 106.

12 Pietroiusti, testimonianza rilasciata a chi scrive, 2013.

13 Falci, testimonianza rilasciata a chi scrive, 2013, in A. Pioselli, op. cit., p. 109.

14 N. Bourriaud, Esthétique relationnelle, Les presses du réel, Paris 1998.


domenica 2 febbraio 2020

Lucilla Meloni, Il Gruppo di Piombino: processualità, partecipazione involontaria e persistenza dell’opera


Il Gruppo di Piombino: processualità, partecipazione involontaria e persistenza dell’opera
di Lucilla Meloni

Relazione per il convegno “L'Arte Relazionale prima di Nicolas Bourriaud. Gli anni '80 e '90 in Italia: Gruppo di Piombino – Progetto Oreste -Stalker”, Macro Asilo, Roma 16 marzo 2019.
Pubblicato negli Atti del Convegno, a cura di Francesca Franco, Macro Asilo Diario, fasc. 16/03, Roma 2019.


   Che questa giornata di studio e di testimonianze avvenga dopo l’ “Underground eventualista” – gli incontri che hanno ripercorso la storia del Centro Studi Jartrakor, fondato da Sergio Lombardo a Roma nel 1977, nel quale si sono formati tanto Domenico Nardone che Cesare Pietroiusti, concorrendo allo sviluppo della Teoria eventualista formulata da Lombardo – è una fortunata coincidenza1.

Infatti proprio la necessità di una rivisitazione dei presupposti dell’Eventualismo porta Nardone, nel corso del 1982, a ipotizzarne un diverso sviluppo: a quel punto per il critico l’ “opera-stimolo” doveva varcare i confini del laboratorio, cioè di Jartrakor, per disseminarsi nello spazio pubblico. Decide dunque di fondare con Daniela De Dominicis e Antonio Lombardi la galleria militante Lascala, che sarà la sede in cui alla fine del 1984 il Gruppo di Piombino presenterà Sosta quindici minuti.
La mia riflessione ruoterà intorno alla singolare esperienza del Gruppo di Piombino, che negli anni ottanta ha sviluppato una ricerca completamente in controtendenza rispetto a una koiné incentrata sul primato dell’individualità e dell’autorialità.
In quel decennio infatti emerge nella pratica dell’arte l’urgenza di riappropriarsi dei linguaggi tradizionali e, concettualmente, il rifiuto della intenzionalità politica che aveva caratterizzato in molta parte il decennio precedente. Viene così riaffermata l’idea dell’opera d’arte intesa quale luogo auratico, portatrice di una distanza che recideva il filo, più o meno evidente, che aveva collegato le molteplici declinazioni dell’opera “partecipata”: in cui l’intervento del pubblico dell’arte o della gente comune portava a compimento, sempre in maniera consapevole, il progetto dell’artista.
In quel momento le pratiche di matrice collettiva diventano improvvisamente obsolete, legate al clima contestatario degli anni sessanta e settanta e anche per questa sua “solitudine”, la formazione del gruppo di Piombino è significativa.
Nato dall’incontro tra Salvatore Falci, Stefano Fontana, Pino Modica e Domenico Nardone, cui si deve l’impianto teorico, ad esso si unisce poco dopo Cesare Pietroiusti. La sua storia, seppur breve, ha rappresentato infatti un originale intervento nella realtà, ha ricollegato arte e vita quotidiana, e ha comportato la ri-definizione dell’oggetto d’arte.
Se il gruppo eredita, dall’avanguardia e dalla neoavanguardia, la messa in campo della processualità come momento centrale del lavoro, rielabora poi questo passaggio in maniera del tutto inedita nella successiva formalizzazione dell’opera.
La prima novità rispetto alle formazioni collettive del decennio precedente, di cui proprio qui al Macro Asilo abbiamo parlato nel convegno di novembre2, è la presenza costitutiva della critica militante e la messa a punto di una teoria dell’arte che si sostituisce agli aspetti politici e ideologici.
Gli esiti formali del gruppo possono essere senz’altro inclusi in una storia dell’ ”arte partecipata”, nel senso di un’opera d’arte alla cui realizzazione abbia concorso, oltre all’artista, un altro o altri soggetti. Ma ciò che rende singolare il tipo di partecipazione messa in atto dagli interventi dei piombinesi, è la sua natura involontaria, come spiega bene Nardone, che nel 1988 scrive: «[...] In primo luogo spicca l’assoluta involontarietà con cui le azioni della gente entrano a far parte integrante dell’opera: in linea di massima, coloro che camminano sui pavimenti di Falci, manipolano i materiali di Fontana, scarabocchiano o deformano gli oggetti che poi Pietroiusti ingigantisce o giocano al calciobalilla di Modica, ignorano la predisposizione che gli oggetti hanno»3.
Tale peculiarità degli oggetti messi a disposizione e il principio di involontarietà distinguono nettamente la pratica del gruppo dalle intrusioni nella realtà svoltesi nel decennio precedente, che si avveravano per lo più in luoghi socialmente e politicamente connotati e avevano una finalità chiaramente ideologica. Al contrario, gli oggetti e i contesti scelti dai piombinesi appaiono banali nella loro quotidianità.
Infatti i dispositivi predisposti, oggetti comuni lievemente modificati che l’autore ha sottratto al circuito della funzionalità, sono inseriti nei luoghi della vita: bar, cabine telefoniche, negozi, spazi urbani.
Se l’artista è colui che predispone uno stimolo, come le “prove materiali” di Fontana, come le tovaglie di Pietroiusti (N Titoli, 1987), come il Rilevatore estetico di Modica, o che fissa lo svolgersi di atti quotidiani, come accade nei Pavimenti o nei Letti di Falci, l’opera è compiuta solo se il dispositivo inserito nel contesto è stato agito entro un certo lasso di tempo; pertanto, dal punto di vista concettuale, la sua riuscita è ipotetica perché soggiace all’intervento, o meno, di un pubblico.

I Letti di Salvatore Falci (1989) esposti nella mostra Conwith alla galleria Casoli-de Luca, Roma, 2019
 
Ad ogni modo, c’è la persistenza dell’opera d’arte, che è ancora un oggetto: non è più l’ “evento” instabile, soggetto a decadenza e a saturazione dell’Eventualismo e non si è ancora rarefatta nelle trame della realtà, come avverrà di lì a breve nell’arte relazionale, come nei Pensieri non funzionali di Pietroiusti, o nelle camminate degli Stalker.
Immersa nel presente, l’opera include sempre una doppia temporalità: quella del processo e quella dell’artista che lo blocca.
Fissa nel suo supporto, presenta i gesti automatici, le attitudini comportamentali, le tracce lasciate da differenti soggetti in altrettanti ambiti e mette in luce il rapporto, più o meno subliminale, con gli oggetti d’uso e di consumo.
C’è poi la sperimentazione sulle materie e l’emergere di nuclei di significato altrimenti sconosciuti; viene svelata la differenza, nella risposta allo stimolo, fra l’atteggiamento consapevole e quello involontario.
Alla fine del processo l’opera può essere esposta nella galleria e nel museo e dunque entra a far parte a pieno titolo del sistema dell’arte; i titoli per lo più descrivono semplicemente l’oggetto che accompagnano e a volte, come in alcune opere di Pietroiusti, coincidono con la giornata in cui si compie l’azione.
In questo percorso come si definisce il ruolo del coautore inconsapevole che “partecipa” al progetto? Che si trova di fronte ad oggetti “traditi”?
In quella che è stata definita come “opera partecipata”, colui che interagisce ha una fisionomia ben precisa e in alcuni casi arriva ad orientare il lavoro o in un modo o nell’altro; ma qui, dove l’artista, ossia l’oggetto modificato, sembra anzi in certi casi beffarsi del suo utente? Nardone intitola, non a caso, una mostra del gruppo: L’arte di ingannare (Galleria Il Prisma, Siena 1986).
Concludo su questo titolo perché mi piace e sembra che bene sintetizzi una poetica: la messa in atto di una strategia “morbida”, come aveva scritto Nardone in un testo di presentazione, suffragata da una teoria dell’arte e da una metodologia creativa che hanno permesso a queste opere di diventare oggetti strani, a volte un po’ ludici, liberati dalla catena della funzionalità, ambigui e perciò più interessanti, o di presentarsi come il palcoscenico di un teatro su cui gli attori hanno lasciato le tracce delle loro azioni.
Terminata l’esperienza del Gruppo, la cui ultima mostra collettiva risale al 1991, Cesare Pietroiusti e Salvatore Falci saranno protagonisti dell’arte relazionale, in cui il gruppo si fa comunità fluida e provvisoria, in cui la figura dell’autore si stempera nella orizzontalità dei ruoli, in cui la messa in pratica di differenti strategie operative renderà infine marginale il ruolo della critica.

1 Cfr. M. Mirolla (a cura di), Underground eventualista, Macro Asilo, Roma 8-15-23-30 gennaio 2018; 7-13-20 febbraio 2019.
2 Cfr. L. Meloni (a cura di), Italia anni Settanta: gruppi, collettivi d’artista, spazi autogestiti nel decennio della contestazione, Macro Asilo, Roma 8-9-10 novembre 2018.
3 D. Nardone (a cura di), Salvatore Falci Stefano Fontana Pino Modica Cesare Pietroiusti (Firenze, Galleria Vivita - Milano,  Studio Casoli, 6 febbraio - 2 aprile 1988), Galleria Vivita-Studio Casoli, Firenze-Milano 1988, p.8.



sabato 25 gennaio 2020

Il Gruppo di Piombino e l'Arte Relazionale: analogie e differenze

Il Gruppo di Piombino e l'Arte Relazionale: analogie e differenze.
di Domenico Nardone

Relazione per il convegno “L'Arte Relazionale prima di Nicolas Bourriaud. Gli anni '80 e '90 in Italia: Gruppo di Piombino – Progetto Oreste -Stalker”, Macro Asilo, Roma 16 marzo 2019.
Pubblicato negli Atti del Convegno, a cura di Francesca Franco, Macro Asilo Diario, fasc. 16/03, Roma 2019.



   Da qualche anno a questa parte – soprattutto da quando curo il blog del Gruppo di Piombino – mi sento rivolgere la domanda sui rapporti che intercorrono tra la teoria e la pratica dell'arte del Gruppo di Piombino e l'Arte Relazionale di cui a molti la nostra esperienza sembra costituire un antecedente.
Come è noto Nicolas Borriaud formalizza e da spessore teorico al concetto di Arte Relazionale nel saggio Estetica Relazionale che pubblica nel 1998, mentre la prima mostra da lui curata dove questa si profila come tendenza è Traffic, per il Museo di Arte Contemporanea di Bordeaux che risale 1996.
Per una scelta operata di comune accordo, per quanto ci riguarda, abbiamo invece stabilito di racchiudere l'esperienza di Piombino tra la fine del 1984, quando Falci, Fontana e Modica espongono per la prima volta l'opera a firma collettiva Sosta Quindici Minuti, ed il 1992, anno in cui Falci, Fontana, Modica e Pietroiusti si presentano per l'ultima volta come gruppo nella mostra curata da Catherine Arthus Bertrand per il Museo d'arte contemporanea di Guirigny nel cui catalogo compare un testo di presentazione da me scritto.
E' però vero che il concetto di Arte Relazionale viene elaborato e formalizzato da Borriaud a partire dal lavoro di molti artisti, come lo scomparso Felix Gonzalez-Torres, la cui esperienza si allunga verso il decennio precedente quasi in contiguità, dunque, con quella di Piombino.

    Una prima idea dei rapporti che intercorrono tra l'impostazione teorica del gruppo di Piombino e quella dell'Arte Relazionale si può cogliere dal raffronto di due passi, il primo tratto da una conferenza tenuta da Borriaud alla Fondazione Ratti nel luglio 1995 e l'altro dal mio Alice nel Paese della Realtà, pubblicato come testo di presentazione della mostra del Gruppo alla galleria Vivita di Firenze nel 1988.

Il mio primo caposaldo è che credo fermamente sia difficile, oggi, rappresentare la realtà. In un certo senso, penso che noi abbiamo oltrepassato la rappresentazione della realtà: noi dovremmo produrla, la realtà. Ovviamente un artista può continuare a rappresentarla, ma il risultato dipenderà dalla maniera in cui intende questa operazione: la rappresentazione non deve essere un fine in se stessa, ma uno strumento all'interno di un meccanismo molto più complesso. Per definire questo approccio, dovremmo usare la locuzione "realismo operazionale": "realismo" perché si tratta, comunque, di un atto volto verso la realtà che è diretto a penetrarla, ma "operazionale" perché la maggior parte delle opere d'arte oggi sono orientate a una fuga dal mondo dell'arte in quanto tale e verso l'inserimento all'interno di processi reali. (N.Borriaud, conferenza presso la Fondazione Ratti, luglio 1995)

La trasformazione dell'esperienza quotidiana che realizzano queste opere, nella misura in cui rendono nuovamente problematiche le nostre relazioni con oggetti e situazioni di largo consumo, è ottenuta a mezzo di strategie 'morbide', che alla chiassosità effimera e un po' carnevalesca dell'agit-prop prediligono la meno rumorosa ma più sostanziale modificazione subliminale.
In precedenti occasioni ho definito questo passaggio come la transizione da un'arte politica ad un'arte fatta in maniera politica, vale a dire di un'arte che, pur orientandosi decisamente verso la trasformazione delle realtà e delle pratiche sociali, nondimeno conserva la propria autonomia, rendendosi indisponibile ed inservibile a qualsivoglia strumentalizzazione o azione di propaganda. (D.Nardone, Alice nel paese della Realtà, Firenze 1988)

Dal raffronto di queste dichiarazioni teoriche emerge la possibilità di definire un campo d'azione comune – il reale – in cui sia L'Arte relazionale sia quella di Piombino tendono a dislocare la loro operatività.
Entrambe le posizioni partono dal considerare superata l'arte come rappresentazione della realtà e respingono questa funzione ai margini del suo orizzonte teleologico a favore di una performatività del reale di cui l'arte rivendica il suo far parte integrante.
Stante questo presupposto comune, nella pratica gli artisti di Piombino e quelli cosiddetti "relazionali" imboccano strade alquanto diverse. Il gruppo di Piombino si struttura infatti come un'avanguardia. Chi entra a farne parte, a prescindere dal ruolo che svolge, viene a trovarsi all'interno di una sorta di cerchio magico che moltiplica le energie. Gli artisti vivono a stretto contatto di gomito, si studiano, si annusano, l'idea sviluppata dal lavoro di uno è immediatamente approfondita e rilanciata dal lavoro dell'altro.
Per quanto mi riguarda, avendo giocato per un periodo nella storia del gruppo il ruolo di gallerista, ho già detto altre volte come vivessi il momento di commercializzazione delle opere più che altro come divulgazione, ogni vendita di un opera del gruppo rappresentava in realtà per me un allargamento del consenso.
Quella che avevo definito - mutuando il concetto da Godard che aveva detto "non bisogna più fare film politici ma fare film in maniera politica" – una maniera politica di fare arte, si traduceva a livello pubblico in prese di posizione da parte del gruppo che un tempo si sarebbero definite "militanti", come rifiutare le mostre a cui era invitata solo una parte degli artisti del gruppo o, come nel caso della Biennale di Venezia del 1990, dove era stato invitato il solo Stefano Fontana, nell'esporre nello spazio a lui riservato anche le casse d'imballaggio delle sue opere che – anche se realmente utilizzate come tali - dopo il trasporto erano diventate altrettante opere di Salvatore Falci.
Dell'essere avanguardia il Gruppo di Piombino presenta ovviamente anche i difetti: la coesione interna di un'avanguardia si proietta infatti all'esterno come intransigenza ideologica, in un crescendo paranoide che finisce per determinarne l'autodistruzione per implosione. Pensate ad esempio alle espulsioni dal movimento surrealista decretate a raffica da Breton.

Il termine Arte Relazionale, invece, indica più che altro una tendenza, un modus operandi che si riscontra e ricorre nel lavoro di alcuni artisti. Borriaud, in particolare, l'unica volta che nel suo saggio usa il termine avanguardia lo fa per sottolineare il carattere obsoleto dell'utopia radicale e universalista implicata da questo termine.
Qualcosa dell'utopia radicale delle avanguardie storiche e degli anni Sessanta persiste invece ancora, a mio avviso, nella teoria e nella pratica del Gruppo di Piombino, che piuttosto avvertono la modernità come progetto incompiuto – per dirla con Habermas - anziché definitivamente insterilito – e che sottendono in definitiva un progetto di trasformazione del mondo attraverso la diffusione dei nuovi modelli di comportamento a cui esse danno luogo.

Osserviamo adesso più in dettaglio per quali aspetti un'opera classificata come "arte relazionale" somiglia ad un opera piombinese e per quali ne differisce attraverso il raffronto di Turkish jokes, un'opera dell'artista relazionale danese Jens Hanning, realizzata per la prima volta nel 1994 e Buono di prenotazione d'acquisto, un'opera di Pino Modica del 1991.
Metto a raffronto proprio queste due opere perchè entrambe affrontano la stessa tematica, vale a dire l'integrazione delle minoranze etniche provenienti da paesi poveri nelle società a capitalismo avanzato.
Nel 1994 Jens Haaning ha diffuso per mezzo di un altoparlante una serie di storielle buffe in lingua turca su una piazza di Copenhaghen particolarmente frequentata da immigrati di questa etnia (Turkish jokes). Successivamente diverse versioni di questo lavoro sono state riproposte nel corso degli anni in altre città (Oslo, Berlino, Mosca). Le storielle diffuse dall'altoparlante erano sempre nella lingua madre di un gruppo etnico presente in quota minoritaria nel tessuto sociale in oggetto.
Come osservato da Borriaud, ascoltare una storiella di cui possono comprendere il significato modifica i modelli di relazione che intercorrono tra coloro che parlano quella lingua e che si trovano in quel momento a passare nella piazza. La particolare natura di queste storielle, viene da aggiungere, tutte atte a suscitare il riso in chi le comprende, determina una sorta di visualizzazione della rete di relazioni che si viene a formare e a cui si connettono tutte le persone che in quel momento sorridono.
Il formarsi di questa rete di relazioni sottrae – anche se solo provvisoriamente – l'emigrante all'isolamento della sua condizione di straniero in terra straniera rendendolo nuovamente partecipe di una comunità lasciandogli con ciò intravedere un nuovo modello esistenziale.

Nel 1991 – in collaborazione con la Confesercenti e la CGIL Immigrazione di Piombino – Pino Modica aveva finanziato 6 buoni di prenotazione d'acquisto del valore di lit.250.000 l'uno. Questi buoni erano stati distribuiti ad altrettanti cittadini extracomunitari tramite una sorta di lotteria svoltasi presso i locali della sezione della CGIL. I sei immigrati avevano potuto spendere i buoni in prenotazioni d'acquisto presso un qualunque esercizio cittadino da loro scelto. Successivamente, nel 1992, l'artista presentò in una mostra presso le gallerie Alice e Il Campo di Roma, sei basi che raccoglievano ognuna le merci scelte da ciascuno dei sei acquirenti extracomunitari. Nel corso dello stesso anno, Buono di prenotazione d'acquisto fu anche selezionata per la grande mostra internazionale, Molteplici Culture – 60 artisti invitati tra i quali figuravano Damien Hirst, Alfredo Jaar, Marcel Odenbach, Henry Bond, Michelangelo Pistoletto e Alighiero Boetti - curata da Carolyn Christov Bagarkiev e Ludovico Pratesi al Museo del Folklore di Roma, dove fu presentata con un diverso allestimento.
Con questa operazione Modica andava ad alterare il modello percettivo che il commerciante ha per solito dell'immigrato che, anzichè nelle più consuete vesti di questuante, gli si presentava invece sotto il profilo dell'acquirente. Contrasto reso più stridente dal fatto che gli immigrati, lungi dall'orientare i propri acquisti verso generi di prima necessità li orientarono decisamente verso generi di lusso (scarpe Reebock, stereo portatile, etc.), i cosiddetti status symbol del benessere nelle società occidentali. Fenomeno comunque del tutto analogo a quello che si verificava nel corso degli “espropri proletari” compiuti dal proletariato giovanile del movimento del '77 a testimonianza dell'emergere nelle classi escluse di un bisogno d'inclusione attraverso il possesso di oggetti e beni in qualche modo superflui, cioè non strettamente legati al soddisfacimento di bisogni primari.

Buono di prenotazione d'acquisto è probabilmente il primo caso in cui, nella pratica di Piombino, la mostra si profila e appare come una ridondanza. Secondo la teoria dell'arte di Piombino, infatti, la mostra in galleria non è altro che il momento in cui i risultati di una pratica sperimentale condotta al di fuori del campo istituzionale del sistema dell'arte, vengono introdotti in questo sistema sotto forma di "comunicazione congressuale" rivolta agli specialisti, al fine di operarvi una modificazione culturale.
In un primo tempo, cioè, l'operazione piombinese si svolge in un contesto del tutto normale in cui nulla la connota esplicitamente come “artistica”, coinvolgendo un pubblico eterogeneo di cui altera gli schemi d'interazione abituali a livello subliminale, inserendo degli elementi incongrui in situazioni apparentemente simili a quelle già esperite innumerevoli volte e rispetto alle quali tale pubblico ha sviluppato risposte automatiche e standardizzate.
La mostra in galleria non fa altro che rievocare o se preferite narrare o riferire i risultati ad un pubblico formato di specialisti di un evento che ha avuto luogo in precedenza.
Questo, a ben vedere, avviene anche nel caso dei Turkish Jokes di Haaning. Vediamo infatti poste a confronto le diverse modalità con cui l'operazione di Modica e quella dell'artista danese vengono presentate al pubblico dell'arte nel contesto di una mostra.

Jens Haaning, Turkish Jokes, 1994
 
La presentazione di Haaning come potete vedere è molto scarna: c'è la fotografia della piazza in cui è stato istallato l'altoparlante accompagnata da un testo che descrive l'operazione. Quasi in disparte, lasciato lì con noncuranza l'altoparlante con arrotolato il suo lungo cavo. E' una modalità di presentazione di tipo tardo concettuale volta ad accentuare e sottolineare la smaterializzazione dell'opera d'arte.
 
Pino Modica, Buono di prenotazione d'acquisto (particolare), 1992
 
Nella presentazione di Modica, gli oggetti appaiono invece evidenziati e disposti ordinatamente quasi come in un display di Steimbach, solo che qui concorrono a definire i termini psicologici e socioculturali del soggetto che li ha scelti e che non è l'artista.

H.Steimbach, Supremely black, 1995

Nella pratica di Piombino infatti l'oggetto non esce del tutto di scena come spesso avviene nell' Arte Relazionale (penso in ad esempio ad alcune opere di Gonzalez-Torres come le pile di manifesti o i cumuli di caramelle che il pubblico è invitato a prelevare determinando così la progressiva scomparsa dell'oggetto) ma vi persiste ricaricato di senso – o di una nuova aura come scrisse Carolyn Christov – dall'uso che ne è stato fatto. Nella fattispecie questo uso consiste nella semplice “scelta di acquisto” da parte di uno dei vincitori della lotteria e che da queste scelte si trova ad essere ridefinito come soggetto.
 
A proposito degli arazzi di Boetti, Bourriaud osserva come l'artista “facendo lavorare cinquecento operai tessitori (in realtà erano quasi tutte donne) a Peshawar ha rappresentato/ripresentato il processo di lavoro delle imprese multinazionali in maniera ben più efficace che non se si fosse accontentato di raffigurarli o di descriverne i funzionamenti”.
Le ricamatrici afghane retribuite dall'artista per realizzare gli arazzi, svolgono in effetti un lavoro salariato che presenta in maniera quasi paradigmatica tutte le caratteristiche che la critica marxiana attribuisce al lavoro alienato. Le ricamatrici non sono infatti proprietarie di quanto producono (che rimane di proprietà dell'artista committente) ed eseguono in maniera ripetitiva e coatta il compito loro assegnato, richieste di attenersi a regole di cui ignorano il significato (ad esempio, nella maggior parte dei casi, non sono neppure in grado di intendere il senso della frase che ricamano a telaio).
Apparentemente, intrattengono con il manufatto che producono con il loro lavoro – e di cui ignorano l'alto valore di scambio - lo stesso rapporto di estraneità che intratterrebbero con una scarpa Nike, se lavorassero in una delle tante fabbriche che nel terzo mondo lavorano per questa multinazionale.
Il processo di produzione messo a punto da Boetti non si limita però alla mera critica sociale, che pure esprime ripresentando – come osservato da Bourriaud - all'interno del sistema dell'arte, il processo di produzione delle multinazionali delle società a capitalismo avanzato. Nel momento in cui gli oggetti così prodotti vengono immessi nel mercato come arte, avviene una sorta di catarsi che riscatta l'alienazione del lavoro svolto da chi li ha materialmente realizzati.
Se infatti gli oggetti prodotti di norma dai sistemi di produzione globale raggiungono il massimo del valore di scambio quanto più sono aderenti e meno si discostano dal prototipo ideale, nel caso degli oggetti d'arte avviene esattamente l'inverso: raggiungono il massimo valore di scambio quanto più è apprezzabile la loro unicità, quanto più cioè si discostano dalla morfologia del prototipo di cui però mantengono le caratteristiche essenziali. L'arazzo che contiene un errore di lettera, involontariamente commesso da chi lo ha eseguito, in altre parole, ha sul mercato un valore di scambio più alto del suo omologo che non presenta questo errore. Lo stesso oggetto, viceversa, se avesse dovuto essere inserito in un circuito di mercificazione diverso dall'arte, sarebbe stato invece scartato o venduto sotto prezzo in quanto difettoso. Tutte le deviazioni dalla norma ed i piccoli errori - dalle disomogeneità e piccole irregolarità di tessitura fino al più eclatante salto o errore di lettera - che l'esecutore introduce suo malgrado nella realizzazione dell'oggetto, emancipano quest'ultimo dalla condizione di oggetto seriale determinandone quell'unicità che ne incrementa il valore di scambio. Attraverso questa deserializzazione dell'oggetto, l'esecutore riscatta il suo lavoro dall'alienazione, rivendicando con forza la peculiarità del suo apporto al processo di produzione e con essa la sua soggettività. Il sistema di produzione messo a punto da Boetti per gli arazzi funziona quindi a tutti gli effetti come una macchina di ri-sogettivazione per usare un'espressione di Guattari, autore per altro molto caro a Borriaud.
Ma torniamo alla modalità operazionale messa in luce da Borriaud a proposito degli arazzi e cioè quella di rappresentare/ripresentare all'interno del sistema dell'arte linguaggi e modelli relazionali tipici di altri settori di attività del macrosistema sociale deprivandoli delle finalità (non necessariamente di lucro) per cui sono sorti sottoponendoli attraverso questa sorta di parodia che ne deriva ad una critica serrata.
Tra gli artisti riferibili all'area dell'Arte Relazionale che sfruttano questa modalità operazionale Borriaud cita la Premiata Ditta e Ingold Airlines.
Nel 1990 Vincenzo Chiarandà e Anna Stuart Tovini – per quanto usino il nome già dal 1984 – registrano la Premiata Ditta come società in accomandita semplice. Almeno fino al 1995 i fini societari sono rivolti alla promozione della ditta attraverso una serie di “autopresentazioni” - con tutto il corredo di grafici, sondaggi presso il pubblico, diffusione di gadget, etc. - che accompagna solitamente l'attività di promozione d'impresa. In una stretta circolarità autoreferenziale l'unica finalità della Premiata Ditta è quella di promuovere se stessa e le sue attività coincidono con l'esistenza stessa dei due soci.
Fin dai primi tempi il nostro modo di porci, impersonale perché con un marchio, e di esprimerci era una reazione alla comoda vaghezza del sistema dell'arte (...). Quello aziendale non appariva il solo linguaggio dell’avversario perché quello poetico degli artisti che decoravano il presente non era per noi meno fastidioso. Usare nell’arte certe parole e definire chiaramente certi meccanismi era un po’ come scoperchiare la pentola. Contemporaneamente vestire i panni del mostro rendeva evidente una realtà che nell’ambiente artistico e culturale sembrava non toccare nessuno. L’aspetto pervasivo dell’economia era, in buona o cattiva fede, ignorato. Il virus assume i connotati della cellula che lo ospita, ma non fa finta, diversamente non porterebbe nessuna modifica”. (da P.P.P. Premiata Ditta s.a.s. in Juliet, anno XXVI, n.127, 2006)
In questa intervista del 1995, Chiarandà e la Tovini, esplicitano i termini della critica serrata a cui l'operazione Premiata Ditta sottopone i modelli di comportamento e di relazione della sociocultura dell'economia postfordiana mediante la loro semplice trasposizione all'interno del sistema dell'arte e deprivandoli di una finalità. In altre parole, costringendo questi meccanismi a girare fuori contesto e a vuoto ne viene messa a nudo la pervasività e invadenza.
Nel 1995 la scoperta della rete e l'incontro con Emanuele Vecchia, un esperto d'informatica, porteranno la Premiata Ditta alla creazione di Undo.Net. Questo network è un data base che raccoglie esperienze artistiche e testimonianze sull'arte da tutto il mondo mettendole in contatto ed in relazione tra loro. Se la Premiata Ditta esisteva grazie alla rete di relazioni che riusciva a stabilire, Undo.Net “è” esso stesso una rete di relazioni senza più alcuna mediazione. L'opera si smaterializza completamente e si risolve esplicitamente in una rete relazionale. E' comunque vero che, con la coerenza che lo contraddistingue, Chiarandà da qualche anno non definisce più il suo ruolo come quello di artista anche se vi aggiunge l'aggettivo “riconoscibile”.
 
Questa possibilità di esercitare una critica sociale e politica sottraendo ai modelli di comportamento standardizzati la loro apparente finalità, è stata sfruttata anche dal Gruppo di Piombino ed in particolare da Stefano Fontana.
L'Unione Depauperati Consapevoli di Stefano Fontana appare per la prima volta nel 1996, con l'installazione all'aperto di un banco per la raccolta di adesioni, nel contesto della mostra Arte instabile a Bologna.
L'UN.DE.CO, nelle intenzioni dell'artista, doveva essere una sorta di movimento politico virtuale, la riproduzione fedele dell'aspetto esterno della forma partito, realizzata mettendo in scena tutte le pratiche che ne caratterizzano l'esistenza nella sfera sociale: tesseramento, manifesti di propaganda, sito internet, spot pubblicitari, etc.
Il primo e unico punto del programma dell'UN.DE.CO è però quello di non avere assolutamente nessun programma.
Anche in questo caso l'artista inserisce nella realtà una struttura formale – a cui corrispondono i modelli comportamentali che definiscono la militanza politica – svuotata del suo contenuto ideologico. Ciononostante questa struttura si trova ad essere agita: le adesioni vengono realmente raccolte e compaiono i primi militanti.
Dal 26 gennaio 2001, e per tutto il mese successivo, la galleria Alice&Altrilavoriincorso di Roma viene trasformata in una 'sezione distaccata' dell'Unione Depauperati, in cui vengono svolte attività di tesseramento, propaganda - attraverso la distribuzione di depliant, portachiavi con il simbolo dell'Unione, spillette, adesivi, etc. - e raccolta fondi. In concomitanza con il periodo di apertura di questa sezione distaccata, l'Unione aveva anche realizzato uno spot promozionale della durata di circa 3 minuti che venne mandato in onda integralmente dalla trasmissione televisiva Blob (RAI 3, 9-2-2001 ).
La galleria non viene più utilizzata, come avveniva in precedenza nella pratica piombinese, per esporre i risultati o narrare un evento che aveva avuto luogo altrove e in un tempo antecedente ma viene piuttosto coinvolta nel processo di produzione e trasformata essa stessa a tutti gli effetti in sezione del partito.
Successivamente l'Unione Depauperati lancerà una vera e propria campagna di protesta contro l'edificazione di una diga lungo il corso del Cornia, che avrebbe provocato la sommersione di alcuni comuni. Nonostante che questo progetto non fosse stato in realtà mai avanzato da nessuno vennero raccolte numerosissime firme in calce alla petizione di protesta. Con l'Unione Depauperati Consapevoli, Stefano Fontana esprime una critica radicale alla trasformazione della politica in una serie di comportamenti automatici e rituali che si attivano anche in totale assenza di contenuto e che conducono al suo risolversi in giudizi di gradevolezza televisiva. Le adesioni che questa organizzazione partitica priva di programmi reali pure riesce a raccogliere, rivela altresì - in maniera drammatica - il bisogno sociale di politica, intesa nel senso più autentico di confronto sui contenuti e non sulle maschere. 
Unione Depauperati Consapevoli
(un momento della raccolta di firme contro la diga sul Cornia)