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martedì 18 febbraio 2014

Marta Leteo, Intervista a Cesare Pietroiusti, 2014


Marta Leteo
Intervista a Cesare Pietroiusti
(in Marta Leteo, Il Gruppo di Piombino: una risposta al 'ritorno all’immagine'.Teoria e metodologia di contrasto praticata nel reale, tesi di laurea magistrale in Storia dell’arte, Università degli studi “La Sapienza”, Roma, 2014)

 Marta Leteo: L’elaborazione della tesi mi ha portato a riflettere sul ruolo del Gruppo di Piombino rispetto al panorama artistico italiano. Ritengo che abbiate rappresentato un fenomeno singolare sia per gli intenti sia per il modo di proporvi nel contesto dei primi anni ottanta. Mi puoi raccontare cosa ha rappresentato per te far parte del Gruppo di Piombino? Ci sono stati dei riferimenti artistico-culturali che hanno dato origine a questa esperienza?
Cesare Pietroiusti: Io e Domenico Nardone (e gli altri artisti del Gruppo di Piombino, se non direttamente, indirettamente) ci siamo formati sull’insegnamento di Sergio Lombardo.
Io credo che, prima di rappresentare un’anticipazione della cosiddetta ‘estetica relazionale’ degli anni ‘90, abbiamo cercato di tenere viva una linea di continuità con le ricerche degli anni precedenti. Nel decennio degli anni ottanta, incentrato su un ritorno “reazionario” al mercato, alla specificità (pittorica, scultorea) dell’opera, al valore legittimante della galleria, per noi era importante rielaborare l’eredità di Lombardo (ma ovviamente anche di Piero Manzoni, dei Fluxus, di  John Cage ecc.) e svilupparla verso altri orizzonti.
Direi che l’esperienza dei Piombinesi si situa a metà fra l’inizio dell’arte relazionale (che esploderà nella seconda metà degli anni novanta), e le ricerche degli anni settanta.

M.L.: Effettivamente ci sono alcune affinità, almeno in una fase iniziale, tra l’Arte Eventuale e l’orizzonte di ricerca Piombinese ma sono poi le differenze ad aver orientato in direzioni distinte la teoria e la pratica artistica delle due esperienze. Queste differenze hanno segnato anche il tuo stesso percorso, portandoti ad allontanarti da Lombardo per accostarti agli interventi di Salvatore Falci, Pino Modica, Stefano Fontana promossi da Domenico Nardone?
C.P.: Il Gruppo di Jartrakor ed il Gruppo di Piombino sono state due esperienze che, come accade spesso fra gruppi “vicini” per affinità poetica, erano in contrasto tra loro, anche perché Lombardo ha sempre avuto una tendenza accentratrice e non aveva vissuto bene l’allontanamento di Domenico Nardone dal centro studi Jartrakor. Forse sarebbe stato più interessante, già allora, analizzare e sottoporre a discussione analogie e differenze e potenzialità di questi due gruppi.
Io, che ho fatto a pieno titolo parte di entrambi, credo di poter dire che la differenza sta nel fatto che le sperimentazioni “|eventualiste” presso il centro Jartrakor erano fondamentalmente laboratoriali, con (pochi) partecipanti motivati e volontari, e un’elaborazione teorica fortemente incentrata sulla psicologia. Gli esperimenti dei Piombinesi, invece, avevano una maggior affinità con indagini di tipo sociologico, spostate nel contesto cittadino e urbano e indirizzate ad un pubblico prevalentemente casuale e ignaro.
Entrambi i gruppi presupponevano il coinvolgimento di altri soggetti nell’elaborazione artistica ma, mentre gli artisti del centro studi Jartrakor coinvolgevano un pubblico cosciente e consapevole di partecipare ad un esperimento, il pubblico coinvolto negli interventi Piombinesi era quello dei passanti, dei clienti di un supermercato, di persone in fila alla posta. Credo che la mia esperienza, e il mio interesse artistico, si situino fra questi due poli.

M.L.: Il punto di rottura tra le due esperienze si stabilirà oltre al diverso orizzonte di ricerca contestuale, laboratorio/ ambiente circostante, anche sul tipo d’interazioni, nella ricerca di una maggiore e minore spontaneità e condizionamento dell’essere implicati in un esperimento? Che valore viene dato al termine “spontaneo”?
C.P.: Lombardo era critico di tutte le tendenze basate sulla “ispirazione” e la valorizzazione espressiva della spontaneità; sosteneva che non si potesse essere spontanei a comando.
L’Arte Eventuale prevedeva che dall’interazione tra un soggetto e un oggetto-stimolo o immagine-stimolo potessero scaturire dei comportamenti non prevedibili. Più i comportamenti erano imprevedibili più si poteva parlare di Arte Eventuale. Ovviamente la scelta dell’oggetto-stimolo era cruciale, e credo che la psicologia proiettiva fosse, a Jartrakor, in generale, il sistema teorico di riferimento. Ma anche i comportamenti “raccolti” dai Piombinesi bypassavano, attraverso, appunto, l’inconsapevolezza delle persone coinvolte, il “paradosso della spontaneità”.

M.L.: Le tue ricerche nel periodo che ha segnato il passaggio dal centro studi Jartrakor al Gruppo di Piombino, sono state rivolte allo “scarto”, mi spiego meglio, mi è parso che nel periodo in cui le tue ricerche erano rivolte all’indagine dell’espressività inconsapevole attraverso i grafismi anonimi, l’aspetto su cui ti concentravi era proprio lo stadio di disattenzione che determinava l’esecuzione di questi segni, è corretto?
C.P: Sì, m’interessava indagare gli aspetti contraddittori tra distrazione e attenzione maniacale al dettaglio, che a volte si verifica nella produzione di scarabocchi. Ma mi interessavano anche gli effetti che proprio un comando paradossale (tipo: “scarabocchia in modo disattento”, o “sii distratto!”), incompatibile con un concetto di spontaneità, potesse innescare sulle persone che lo ricevono.

M.L.: Ciò però non toglie che anche tu hai risposto criticamente alla tendenze artistiche dei primi anni ottanta che si proclamavano in favore della ricerca della spontaneità perduta, ad esempio tramite la serie dei Photo Objects intorno al 1988….
C.P.: Sì, I Photo Objects sono riproduzioni ingigantite di piccoli comportamenti, azioni minuscole ed insignificanti di persone qualunque su oggetti qualunque. Quei lavori avevano alcune caratteristiche tipiche degli anni ottanta, perché grandi, costosi e curati nei particolari (e spesso apprezzati dai collezionisti…).
La mia risposta alla ideologia “spontaneista” degli artisti neo-espressionisti era iniziata anche prima, a partire dal 1982: quell’anno pubblicai sulla “Rivista di Psicologia dell’Arte” un testo dal titolo Funzionalità ed estetica dello scarabocchio, dove era già esplicita una critica alla pittura anni ’80 e alla Transavanguardia. Forse si potrebbe dire che la mia era una reinterpretazione della critica che Sergio Lombardo aveva mosso, nei primi anni ’60, nei confronti dell’Action Painting.

M.L.: Quale era il rapporto fra il lavoro dei Piombinesi e il sistema dell’arte?
C.P.: La mia posizione al tempo e, maggiormente oggi, rispetto alle vicende del passato è un po’ critica e un po’ ambivalente. Ritengo che il ruolo che hanno avuto le gallerie nei confronti del lavoro dei Piombinesi sia stato molto influente, in positivo per fare conoscere un lavoro che altrimenti sarebbe rimasto in un circuito totalmente alternativo, ma anche in negativo perché le ricerche Piombinesi avevano una loro specificità che veniva depotenziata nel momento in cui i nostri lavori entravano in galleria. La grossa novità stava nel rapporto con la strada e con il soggetto qualunque; dare troppa importanza alla mostra in galleria toglieva a quella ricerca tutta la sua eterogeneità, il suo posto nel mondo.
Oggi non stupisce che si possa fare arte ovunque ma negli anni ottanta questo non era così chiaro.
Il messaggio dei Piombinesi voleva ribadire che l’arte può essere portata fuori dagli spazi deputati, fuori dagli atelier e fuori dalle gallerie, con le loro ritualità e i loro corollari.
Le mostre organizzate in galleria forse avrebbero dovuto essere solo degli accessori rispetto ad una sperimentazione radicale che stavamo sviluppando e che purtroppo ha subito un arresto piuttosto precoce. La strategia comunicativa del Gruppo di Piombino è stata indebolita dalle regole del mercato.
Io ho cercato di rispondere a questa influenza della galleria con la serie delle Finestre, su cui ho iniziato a lavorare dal 1988. La mia idea era di portare lo sguardo del pubblico oltre lo spazio della galleria, nei luoghi qualunque intorno ad essa. Le performance, a partire dal 1991, per esempio Visite, che consisteva nel portare direttamente le persone che venivano alla mostra a visitare gli appartamenti qualunque nello stesso palazzo della galleria, eliminava anche la riproduzione fotografica – rendendo sostanzialmente impossibile il rapporto con il mercato. 

M.L.: credi che questo depotenziamento di cui parli sia una delle motivazioni che ha determinato lo scioglimento del Gruppo di Piombino?
C.P.: Veramente io credo che il motivo principale per cui l’esperienza piombinese non è stata riconosciuta in pieno è perché, in seguito alla esperienza del gruppo alla fine degli anni ’80, non c’è stata, da parte degli artisti, una continuità di ricerca che convalidasse, ampliandolo e rendendolo più complesso, il lavoro antecedente.
Ritengo che ci sia stata una sorta di fissazione nei confronti dei risultati ottenuti in quel periodo, e ciò non ha permesso la piena valorizzazione proprio del lavoro che era stato già svolto. Sono convinto infatti che il lavoro di un artista viene sempre reso riconoscibile, comprensibile, significativo, dai lavori successivi di quello stesso artista, dal fatto di tenere vivo non uno “stile”, ma una energia, una attitudine alla ricerca. E’ come se i Piombinesi fossero entrati invece in una sorta di lutto, dopo lo scioglimento del Gruppo; un trauma difficile da superare che ha determinato una sorta di atteggiamento di nostalgia retrospettiva che ha “chiuso” al discorso critico successivo (per esempio, all’enorme e spesso superficiale dibattito, degli anni 90’ e del duemila, sull’arte relazionale, l’arte sociale e l’arte pubblica), un lavoro che era, invece, precoce e promettente.

 

 

 

 

 

 

 

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