Il
Gruppo di Piombino: processualità, partecipazione involontaria e
persistenza dell’opera
di Lucilla MeloniRelazione per il convegno “L'Arte Relazionale prima di Nicolas Bourriaud. Gli anni '80 e '90 in Italia: Gruppo di Piombino – Progetto Oreste -Stalker”, Macro Asilo, Roma 16 marzo 2019.
Pubblicato negli Atti del Convegno, a cura di Francesca Franco, Macro Asilo Diario, fasc. 16/03, Roma 2019.
Che
questa giornata di studio e di testimonianze avvenga dopo l’
“Underground
eventualista” – gli incontri che hanno ripercorso la storia del
Centro Studi Jartrakor, fondato da Sergio Lombardo a Roma nel 1977,
nel quale si sono formati tanto Domenico Nardone che Cesare
Pietroiusti, concorrendo allo sviluppo della Teoria eventualista
formulata da Lombardo – è una fortunata coincidenza1.
Infatti
proprio la necessità di una rivisitazione dei presupposti
dell’Eventualismo porta Nardone, nel corso del 1982, a ipotizzarne
un diverso sviluppo: a quel punto per il critico l’ “opera-stimolo”
doveva varcare i confini del laboratorio, cioè di Jartrakor, per
disseminarsi nello spazio pubblico. Decide dunque di fondare con
Daniela De Dominicis e Antonio Lombardi la galleria militante
Lascala, che sarà la sede in cui alla fine del 1984 il Gruppo di
Piombino presenterà Sosta
quindici minuti.
La
mia riflessione ruoterà intorno alla singolare esperienza del Gruppo
di Piombino, che negli anni ottanta ha sviluppato una ricerca
completamente in controtendenza rispetto a una koiné
incentrata sul primato dell’individualità e dell’autorialità.
In
quel decennio infatti emerge nella pratica dell’arte l’urgenza di
riappropriarsi dei linguaggi tradizionali e, concettualmente, il
rifiuto della intenzionalità politica che aveva caratterizzato in
molta parte il decennio precedente. Viene così riaffermata l’idea
dell’opera d’arte intesa quale luogo auratico, portatrice di una
distanza che recideva il filo, più o meno evidente, che aveva
collegato le molteplici declinazioni dell’opera “partecipata”:
in cui l’intervento del pubblico dell’arte o della gente comune
portava a compimento, sempre in maniera consapevole, il progetto
dell’artista.
In
quel momento le pratiche di matrice collettiva diventano
improvvisamente obsolete, legate al clima contestatario degli anni
sessanta e settanta e anche per questa sua “solitudine”, la
formazione del gruppo di Piombino è significativa.
Nato
dall’incontro tra Salvatore Falci, Stefano Fontana, Pino Modica e
Domenico Nardone, cui si deve l’impianto teorico, ad esso si unisce
poco dopo Cesare Pietroiusti. La sua storia, seppur breve, ha
rappresentato infatti un originale intervento nella realtà, ha
ricollegato arte e vita quotidiana, e ha comportato la ri-definizione
dell’oggetto d’arte.
Se
il gruppo eredita, dall’avanguardia e dalla neoavanguardia, la
messa in campo della processualità come momento centrale del lavoro,
rielabora poi questo passaggio in maniera del tutto inedita nella
successiva formalizzazione dell’opera.
La
prima novità rispetto alle formazioni collettive del decennio
precedente, di cui proprio qui al Macro Asilo abbiamo parlato nel
convegno di novembre2,
è la presenza costitutiva della critica militante e la messa a punto
di una teoria dell’arte che si sostituisce agli aspetti politici e
ideologici.
Gli
esiti formali del gruppo possono essere senz’altro inclusi in una
storia dell’ ”arte partecipata”, nel senso di un’opera d’arte
alla cui realizzazione abbia concorso, oltre all’artista, un altro
o altri soggetti. Ma ciò che rende singolare il tipo di
partecipazione messa in atto dagli interventi dei piombinesi, è la
sua natura involontaria, come spiega bene Nardone, che nel 1988
scrive: «[...] In primo luogo spicca l’assoluta involontarietà
con cui le azioni della gente entrano a far parte integrante
dell’opera: in linea di massima, coloro che camminano sui pavimenti
di Falci, manipolano i materiali di Fontana, scarabocchiano o
deformano gli oggetti che poi Pietroiusti ingigantisce o giocano al
calciobalilla di Modica, ignorano la predisposizione che gli oggetti
hanno»3.
Tale
peculiarità degli oggetti messi a disposizione e il principio di
involontarietà distinguono nettamente la pratica del gruppo dalle
intrusioni nella realtà svoltesi nel decennio precedente, che si
avveravano per lo più in luoghi socialmente e politicamente
connotati e avevano una finalità chiaramente ideologica. Al
contrario, gli oggetti e i contesti scelti dai piombinesi appaiono
banali nella loro quotidianità.
Infatti
i dispositivi predisposti, oggetti comuni lievemente modificati che
l’autore ha sottratto al circuito della funzionalità, sono
inseriti nei luoghi della vita: bar, cabine telefoniche, negozi,
spazi urbani.
Se
l’artista è colui che predispone uno stimolo, come le “prove
materiali” di Fontana, come le tovaglie di Pietroiusti (N
Titoli,
1987), come il Rilevatore
estetico
di Modica, o che fissa lo svolgersi di atti quotidiani, come accade
nei Pavimenti
o nei Letti
di Falci, l’opera è compiuta solo se il dispositivo inserito nel
contesto è stato agito entro un certo lasso di tempo; pertanto, dal
punto di vista concettuale, la sua riuscita è ipotetica perché
soggiace all’intervento, o meno, di un pubblico.
I Letti di Salvatore Falci (1989) esposti nella mostra Conwith alla galleria Casoli-de Luca, Roma, 2019
Ad
ogni modo, c’è la
persistenza
dell’opera d’arte,
che
è ancora un oggetto: non è più l’ “evento” instabile,
soggetto a decadenza e a saturazione dell’Eventualismo e non si è
ancora rarefatta nelle trame della realtà, come avverrà di lì a
breve nell’arte relazionale, come nei Pensieri
non funzionali
di Pietroiusti, o nelle camminate degli Stalker.
Immersa
nel presente, l’opera include sempre una doppia temporalità:
quella del processo e quella dell’artista che lo blocca.
Fissa
nel suo supporto, presenta i gesti automatici, le attitudini
comportamentali, le tracce lasciate da differenti soggetti in
altrettanti ambiti e mette in luce il rapporto, più o meno
subliminale, con gli oggetti d’uso e di consumo.
C’è
poi la sperimentazione sulle materie e l’emergere di nuclei di
significato altrimenti sconosciuti; viene svelata la differenza,
nella risposta allo stimolo, fra l’atteggiamento consapevole e
quello involontario.
Alla
fine del processo l’opera può essere esposta nella galleria e nel
museo e dunque entra a far parte a pieno titolo del sistema
dell’arte; i titoli per lo più descrivono semplicemente l’oggetto
che accompagnano e a volte, come in alcune opere di Pietroiusti,
coincidono con la giornata in cui si compie l’azione.
In
questo percorso come si definisce il ruolo del coautore inconsapevole
che “partecipa” al progetto? Che si trova di fronte ad oggetti
“traditi”?
In
quella che è stata definita come “opera partecipata”, colui che
interagisce ha una fisionomia ben precisa e in alcuni casi arriva ad
orientare il lavoro o in un modo o nell’altro; ma qui, dove
l’artista, ossia l’oggetto modificato, sembra anzi in certi casi
beffarsi del suo utente? Nardone intitola, non a caso, una mostra del
gruppo: L’arte
di ingannare
(Galleria Il Prisma, Siena 1986).
Concludo
su questo titolo perché mi piace e sembra che bene sintetizzi una
poetica: la messa in atto di una strategia “morbida”, come aveva
scritto Nardone in un testo di presentazione, suffragata da una
teoria dell’arte e da una metodologia creativa che hanno permesso a
queste opere di diventare oggetti strani, a volte un po’ ludici,
liberati dalla catena della funzionalità, ambigui e perciò più
interessanti, o di presentarsi come il palcoscenico di un teatro su
cui gli attori hanno lasciato le tracce delle loro azioni.
Terminata
l’esperienza del Gruppo, la cui ultima mostra collettiva risale al
1991, Cesare Pietroiusti e Salvatore Falci saranno protagonisti
dell’arte relazionale, in cui il gruppo si fa comunità fluida e
provvisoria, in cui la figura dell’autore si stempera nella
orizzontalità dei ruoli, in cui la messa in pratica di differenti
strategie operative renderà infine marginale il ruolo della critica.
1
Cfr. M. Mirolla (a cura di), Underground
eventualista,
Macro Asilo, Roma 8-15-23-30 gennaio 2018; 7-13-20 febbraio 2019.
2
Cfr. L. Meloni (a cura di), Italia
anni Settanta: gruppi, collettivi d’artista, spazi autogestiti nel
decennio della contestazione,
Macro Asilo, Roma 8-9-10 novembre 2018.
3
D. Nardone (a cura di), Salvatore
Falci Stefano Fontana Pino Modica Cesare Pietroiusti (Firenze,
Galleria Vivita - Milano, Studio
Casoli, 6
febbraio - 2 aprile
1988),
Galleria Vivita-Studio Casoli, Firenze-Milano 1988, p.8.
Nessun commento:
Posta un commento