di Domenico Nardone
Una versione leggermente ridotta di questo testo è pubblicata in ...ma l'amor mio non muore: opere dalla collezione Ettore Alloggia, Casa Museo Ivan Bruschi, Arezzo, 2016
La figura del collezionista non è di
solito inquadrata tra le categorie professionali proprie del sistema
dell'arte alla stessa stregua di quella dell'artista, del critico e
del gallerista. Fare il collezionista non sembra infatti, almeno
apparentemente, un mestiere nel senso stretto del termine, quanto una
condizione esistenziale, un modo di essere: non si fa il
collezionista ma si è un collezionista.
Eppure è fin troppo facile osservare
che se non esistessero collezionisti di opere d'arte sicuramente non
esisterebbe alcun sistema dell'arte e, forse, nessuna produzione di
arte o quantomeno di ciò che noi attualmente definiamo come tale.
L'insieme dei desiderata dei collezionisti rappresenta infatti
la domanda di mercato che nelle società liberali costituisce gran
parte della committenza (l'altra parte - in Italia, in particolare,
davvero esigua - è rappresentata dalla committenza pubblica).
L'arte risponde a questa domanda con due ordini di produzione: con la produzione di un'arte che chiameremo “tradizionale” e che soddisfa il profilo estetico esplicito della domanda – il gusto corrente – e con la produzione di un'arte detta di avanguardia nella misura in cui anticipa e induce essa stessa l'esplicitazione di una domanda ancora allo stato latente nel corpo sociale.
Al suo sorgere l'arte d'avanguardia si scontra con una reazione di rigetto più o meno violenta da parte del gusto corrente che si esprime anche, se non soprattutto, con una sorta di censura di mercato e la critica e le gallerie che si schierano al suo fianco vengono dette “militanti”. Con una metafora molto suggestiva, anche se forse un po' troppo romantica, Bonito Oliva ha scritto una volta che “il critico militante è un po' come il paladino antico che scende nell'agone e si batte in onore dei colori della sua dama” (l'arte per cui ha scelto di parteggiare). Nello scontro dialettico con le forze che esprimono il gusto corrente, l'arte d'avanguardia si gioca la sua sorte: se ne esce vincitrice sovverte i canoni estetici vigenti e soppianta l'arte tradizionale emarginandone i fenomeni di epigonia. Nelle società liberali, governate dalle leggi del libero scambio, questa partita si gioca principalmente sul fronte del mercato dell'arte, è qui infatti che si decide della vittoria o della sconfitta di un'avanguardia.
Un percorso del genere appena delineato è stato compiuto in epoca recente dal movimento dell'Arte Povera che da arte di avanguardia si è trasformata in arte ufficiale, universalmente riconosciuta ed apprezzata dai mercati. Significativamente la celebrazione di questo rito di passaggio non è avvenuta attraverso una grande mostra internazionale – come avvenne ad esempio con la Pop Art la cui egemonia venne sancita dalla Biennale di Venezia del 1964 che premiò Robert Rauschenberg come migliore artista – ma attraverso una grande asta internazionale.
L'11 febbraio del 2014 si tenne infatti nella sede londinese della Christie's un'asta intitolata Eyes Wide Open: An Italian Vision di 109 lotti tutti provenienti dalla stessa collezione messa insieme nell'arco di 25 anni e classificabili, per la gran parte, come must dell' Arte Povera. Il catalogo dell'asta, per struttura e spessore, somigliava molto ad un manuale di storia dell'arte, in cui il gotha della critica internazionale era stato invitato a scrivere schede e articoli celebrativi del movimento. L'asta era stata inoltre preceduta da una serie di conferenze di presentazione tenute in Europa ed in America e da una mostra itinerante delle opere principali. Come risultato i valori di aggiudicazione di quasi tutte le opere hanno superato di due o tre volte quelli correnti di mercato.
Tra il 1965 ed il 1966, nel pieno
periodo di stato nascente del movimento dell'Arte Povera,
Michelangelo Pistoletto – che può forse essere considerato il guru
del movimento - rispondeva alla crescente richiesta di mercato per i
suoi quadri specchianti (1) con gli Oggetti in meno:
Michelangelo Pistoletto, Oggetti in meno, studio dell'artista, 1966
“Con questi lavori, ognuno diverso
dall'altro, come se si trattasse di una mostra collettiva, viene
infranto quel dogma per cui ogni opera di un artista deve essere
stilisticamente riconoscibile, come un marchio commerciale
standardizzato. Gli Oggetti in meno sono infatti accolti molto
freddamente dalla critica, tanto che determinano un congelamento del
valore di mercato dei precedenti quadri specchianti che avevano
ottenuto grande successo in Europa e negli USA.”
Gli Oggetti in meno nascono dunque
esplicitamente come anti-merce, oggetti in meno, anche in
quanto sottratti al processo di mercificazione, che con la
trasformazione dell'Arte Povera da avanguardia a regime raggiungono
quotazioni di mercato iperboliche. Una volta vittoriosa, l'arte
d'avanguardia perde infatti di norma gran parte della sua spinta
rivoluzionaria e gli artisti del nucleo storico ripiegano su una
produzione di maniera, mentre proliferano e si diffondono i fenomeni
di imitazione e di epigonia. Di norma, ma non sempre.
Michelangelo Pistoletto, Ritratti al Tavolo del Terzo Paradiso, serigrafia su acciaio inox lucidato a specchio, cm. 150x150, 2015
L’11 giugno 2015 nelle sale della Galleria Mucciaccia di Roma, Pistoletto ha fatto realizzare un grande tavolo rivestito da una tovaglia decorata con il simbolo del Terzo Paradiso, intorno al quale ha riunito a convivio 10 coppie di collezionisti che sommate a quelle costituite dal gallerista e dalla moglie e dal mercante d'arte Mario Pieroni con Dora Stiffelmayer formavano un totale di dodici coppie. Durante la serata sono state scattate le fotografie successivamente utilizzate per realizzare altrettanti ritratti su superficie specchiante delle dodici coppie che si erano preventivamente impegnate ad acquistarli. Qualche mese dopo queste opere sono state esposte nella galleria in una mostra dal titolo Ritratti al Tavolo del Terzo Paradiso.
La visione
d'insieme di questi quadri specchianti è davvero impressionante: la
borghesia è ritratta come ingessata nelle stesse pose e negli stessi
atteggiamenti stereotipati che si ripetono nelle sue rappresentazioni
ufficiali dalla ritrattistica fiamminga del XVII secolo fino ad oggi.
Attraverso una neppure troppo velata allusione all'Ultima Cena
(dodici coppie come dodici erano gli apostoli) l'artista mette quindi
in scena una critica del vivere borghese che ricorda quella feroce
del Bunuel del Fantasma della libertà, in cui li mostra
compunti sedere tutti insieme a tavola per defecare e rinchiudere da
soli in uno stanzino per mangiare.
da Luis Bunuel, Il Fantasma della Libertà, 1975
E questa è veramente una
veronica, il “passo
del torero organico/obliquo al
reale” di cui parla Bonito Oliva nel suo testo in catalogo, con
cui l'artista mette alla berlina ciò che apparentemente sembra voler
celebrare.
Sulla base delle
considerazioni sin qui svolte, la figura del collezionista appare
sotto una luce diversa: lungi dall'essere il ricco scemo (come
un tempo venivano considerati i presidenti delle squadre di calcio) e
scialacquatore è piuttosto una parte attiva del sistema dell'arte,
capace di condizionarne e orientarne la produzione. I collezionisti
che prendono partito per un'arte d'avanguardia e cominciano ad
acquistarla schierandosi al suo fianco, divengono infatti determinanti
nel decretarne il successo nello
scontro dialettico con l'arte di regime del momento. Così come
esistono critici e galleristi “militanti” esistono quindi anche –
e non sono assolutamente meno decisivi - collezionisti che divengono
tali e rimangono anch'essi indissolubilmente associati nella memoria
al movimento che hanno sostenuto. Rimanendo in ambito italiano, basti
pensare al barone Giorgio Franchetti, la cui figura di collezionista
è strettamente legata alla cosiddetta scuola di Piazza del Popolo, o
al conte Giuseppe Panza di Biumo e la scuola californiana. Queste due
figure di collezionisti – non del tutto casualmente entrambi di
estrazione aristocratica – appaiono inoltre particolarmente
significative perchè precorrono e avviano quel processo di
transizione del collezionismo d'arte contemporanea dal puro
mecenatismo all'imprenditoria culturale che oggi condiziona
fortemente il sistema dell'arte. Attualmente infatti le collezioni
d'arte contemporanea sono sempre meno mere accumulazioni come
tendevano ad essere nel passato e sempre più strutture dinamiche che
cambiano e si trasformano nel tempo per mezzo di permutazioni e
meccanismi di compravendita che generano comunque degli utili, anche
se questi vengono, nella maggior parte dei casi, reinvestiti nella
collezione stessa (per questa ragione molti collezionisti di un
certo livello possono operare infatti sul mercato attraverso lo
strumento giuridico delle fondazioni no profit).
In linea di massima queste collezioni,
intese come imprese culturali, investono parte del capitale in valori
più o meno consolidati - le cosiddette opere storiche che già
figurano nei musei e nei manuali di storia dell'arte – e parte in
opere più sperimentali e d'avanguardia che rappresentano
l'equivalente degli investimenti nella ricerca di un qualunque altro
tipo d'impresa.
Presentare al pubblico la collezione
d'arte contemporanea di un collezionista ancora attivo, come è il
caso di Ettore Alloggia, significa quindi mostrare il risultato
provvisorio di un percorso, fissando in un'istantanea un momento di
un processo di formazione ancora in fieri.
L'analisi delle opere che formano il
nucleo storico della collezione ci dice inoltre qualcosa della
visione dell'arte che ha il suo autore, delle istanze che guidano le
sue scelte quando si muove nel campo accidentato
dell'ipercontemporaneità. Si parte quindi da Giacomo Balla – il
“grande vecchio” del Futurismo – alla cui ricerca si richiamano
negli anni '50 gli astrattisti del gruppo di Forma 1, qui
rappresentato dalle opere della Accardi, di Dorazio e Sanfilippo, che
esplicitamente lo assumono a proprio nume tutelare. Nei formidabili
anni '60 lo sguardo del collezionista si appunta dapprima sulla
scuola romana di Piazza del Popolo – presente con i suoi pilastri
Schifano, Festa e Angeli – per seguire poi una sottile linea
minimalista che dai monocromi di Castellani e Lombardo si connette,
passando attraverso il minimalismo concettuale di Giulio Paolini,
alle opere di Piacentino e Mochetti che introducono agli anni '70 e
prosegue nel decennio successivo con il lavoro di Ettore Spalletti.
Nel mezzo, la rivoluzione di Boetti, punto di catastrofe del sistema,
da cui prendono le mosse sia un movimento di riflusso come la
Transavanguardia – qui rappresentata da Enzo Cucchi (Sì, perché
noi dobbiamo andare solo indietro. Andare avanti non vuol dir niente
in pittura) (2) – che ne radicalizza l'istanza libertaria, sia
la cosiddetta ultraprogressista Arte relazionale che ne sviluppa
l'apertura al ruolo del pubblico nel processo di produzione
dell'arte.
Note:
(1) “Arrivato alla fine del 1964, Leo Castelli mi dice: sbrigati a fare quadri perché sono stati tutti venduti e piazzati nei musei, voglio fare una tua mostra subito.” (Germano Celant, Intervista con Michelangelo Pistoletto, Genova, febbraio 1971, in Germano Celant, Michelangelo Pistoletto, catalogo della mostra, Palazzo Grassi, Venezia, 1976.
(2) Achille
Bonito Oliva, Intervista a Enzo Cucchi (1982)
in Enciclopedia della parola. Dialoghi
d’artista. 1968-2008, Skira, Milano
2008,
pag.
226-27.
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