Mi
sono sempre chiesta cosa facciano le opere quando vanno a dormire.
di
Simona Antonacci
pubblicato in catalogo della mostra Salvatore Falci, Conwith, galleria Casoli-de Luca, Roma, 2019
Il
prato che ha invaso la “sala grande” della galleria Casoli De
Luca a Roma, in occasione della mostra di Salvatore Falci, ci porta
indietro di quasi trent’anni. È il 1990 quando l’artista
dissemina segatura e semi su una lastra di forex su un ponte di
Venezia per 24 ore. Il passaggio di persone e oggetti modifica,
trasforma e diffonde questa miscela, che viene poi umidificata,
trasferita in serra, innaffiata e riportata su una lastra. Nasce
l’erba.
Realizzata
in occasione della XLIV Biennale di Venezia, Aperto
90,
l’opera
viene esposta nella sede dell’Arsenale e poi riallestita l’anno
successivo nel nuovo spazio espositivo di Domenico Nardone, la
galleria Alice a via di Monserrato.
Salvatore Falci, Ponte Sant'Eufemia, galleria Casoli-de Luca, Roma, 2019
Ponte
Sant’Eufemia
è un’opera
cardine della fase “piombinese” di Falci e allo stesso tempo
apre, nella riproposizione nella Galleria Casoli-De Luca di Roma,
nuove possibilità di senso.
In
linea con i principi di base della proposta piombinese, l’opera si
configura come un esperimento che presuppone un progetto, una
reazione differenziata e una verifica rigorosa.
In particolare, come già nei primi lavori esposti nella Galleria
Lascala di Domenico Nardone, Falci propone un arretramento
dell’autore in favore di una creazione condivisa: nella negazione
della propria presenza, l’artista propone una situazione-stimolo di
carattere relazionale. Se nella prima fase della sua produzione
(Itaj-doshin,
Pavimenti, Letti, Puff) gli
oggetti dislocati da Falci accolgono le tracce del corpo umano in
movimento o in posizione statica, con le serie Vasche
e Fiumi
e con Ponte
Sant’Eufemia
il campo d’indagine si estende: l’attenzione si rivolge a
contesti in cui l’azione dell’uomo si ibrida con quella degli
elementi naturali e con quella degli altri uomini.
Traslitterando
nel campo dell’arte un procedimento che rimanda al metodo
sperimentale scientifico, Falci indaga i principi della dispersione e
dell’entropia, cercando di contraddirli: la realtà si rivela
percorsa da dinamiche invisibili di cui Falci prova a cogliere il
senso ritmico e l’andamento, replicando il metodo dello scienziato
nel tentativo di trovare regole nel caos dell’esistenza.
I
movimenti e i gesti delle persone, così come il soffiare del vento e
la pioggia, sono dunque gli “agenti” involontari che definiscono
una configurazione estetica unica e irripetibile: è questa che, in
un equilibrio unico di caso e caos, viene fissata nel tempo,
dislocata nello spazio discorsivo del sistema dell’arte e resa
potenzialmente imperitura. Un cambio di campo semantico che trasforma
la natura e il valore di questa “creatura”
definitivamente.
Ma
poi la mostra finisce e per l’opera, per ogni opera, inizia una
fase che la porta lontana dalle pareti del museo che gli hanno
attribuito quel
valore. Cosa accade quando l’opera entra in quel letargo – lungo
trent’anni in questo caso – in cui non è allestita?
Mi
sono sempre chiesta cosa facciano le opere quando vanno a dormire. Se
sono ancora “vive”, se sono ancora “loro” quando stanno
chiuse in deposito o in una galleria o in uno studio, quando insomma
sono sottratte a quello sguardo che ha
il potere di conferirgli di nuovo significato, di riattivarne il
potere. Le possiamo considerare ancora opere d’arte?
In
questi anni quale è stata la “natura” dell’erba bruciata di
Ponte
Sant’Eufemia?
Per
quanto riguarda tanti interventi “concettuali”, sappiamo che è
il progetto a trattenere la memoria dell’opera “in potenza”,
progetto che riposa nel più evocativo dei casi tra le carte
dell’artista e, più frequentemente oggi, nelle cartelle di un pc.
Ma mi sembra un luogo freddo in cui stare e poi nessuna matrice
“fisica” dell’opera c’è.
C’è la
memoria del progetto, dell’idea, ma nulla che ne trattenga,
potremmo dire, l’anima.
E
forse anche Falci ha pensato questo quando, invece di scegliere la
soluzione (forse più scontata) di lasciare solo la traccia
immateriale di un progetto da ripetere occasionalmente nel tempo, ha
deciso invece di bruciare i residui dell’erba e di conservarli per
quasi trent’anni. Era importante, infatti, che la nuova
installazione fosse prodotta proprio a partire da quell’erba
sedimentata in quel
momento su quel
ponte di Venezia, in quanto portatrice di una “memoria”
specifica: nell’erba bruciata è la traccia di ciò che è stato,
il principio simbolico e fisico di una continuità nel tempo, della
persistenza di una traccia mnemonica, l’engramma
di un evento, potremmo dire.
E
se questa scelta può sembrare secondaria, o addirittura romantica,
svelando un desiderio di eternità per un intervento originariamente
effimero, in realtà questo scarto si rivela cruciale e offre lo
spunto per una comprensione più profonda del lavoro e del ruolo che
Falci immagina per sé e per l’opera.
La
possibilità di “ri-attivare” l’opera,
infatti, ha a che fare non solo con gli aspetti sottesi alle pratiche
del re-enactment e con il superamento di un’idea di opera sempre
uguale a sé stessa: nella proposta di Falci l’aspetto rilevante è
che il centro non è nel progetto, ma nell’evento. È per questo
che le sue opere (così come quelle realizzate dagli altri artisti
del gruppo di Piombino) sono spesso difficili da definire e
inquadrare: perché scivolano via sia dalle maglie delle pratiche
concettuali, che da quelle dell’arte pubblica tout court e
relazionali o proto-relazionali, pur stando a contatto con tutte
loro. In questo muoversi in modo non convenzionale sulla soglia dei
campi e delle definizioni trovo molto di “piombinese”.
Del
resto è proprio in uno spazio di frontiera che l’esperienza dei
Piombinesi ha sempre agito: lontani dall’idea (peraltro
predominante in quei controversi anni Ottanta in cui nasce il gruppo)
di un’opera d’arte definita e chiusa, autoreferenziale; lontani
dall’approccio personalistico dell’artista come “autore” e
“creatore”
e lontani anche da un modello organizzativo statico e gerarchico,
propongono invece una interpretazione collettiva e mobile dei modelli
di gruppo e di galleria (che, non a caso, tenta di andare “fuori da
sé”, nello spazio del quotidiano).
E, soprattutto, testardamente intenzionati a situare la pratica
artistica in uno spazio liminale e anarchico di “non piena
consapevolezza”, di ambiguità dell’intervento, che è definito
infatti subliminale,
perché finalizzato a determinare una reazione spontanea e non
convenzionale.
Oltre
a tutto questo Ponte
Sant’Eufemia
nella sua versione del 2019 offre una ulteriore indicazione sulla
figura dell’artista: non solo attivatore ma anche e soprattutto
custode.
C’è
qualcosa di molto intimo nell’atto di raccogliere e preservare le
tracce di quell’evento di trent’anni fa, che avvicina la figura
dell’artista più a quella del curatore che a quella del creatore. Che
in fondo mi fa pensare a quella di un padre affettuoso che rimbocca
le coperte all’opera-evento
per custodirla nel tempo. Anche quando dorme.
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