Visualizzazioni totali

giovedì 10 ottobre 2024

Stefania Gagliardini, Spazi, gallerie, azioni e contesti di ricerca a Roma negli anni Ottanta, tesi di dottorato, 2021

Stefania Gagliardini, Spazi, gallerie, azioni e contesti di ricerca a Roma negli anni Ottanta.

tesi di dottorato
Università La Sapienza, Roma

La tesi si articola in quattro capitoli, a cui si aggiungono l'Introduzione, gli Apparati, le immagini, la Bibliografia e la Conclusione. Il primo capitolo offre una mappatura cronologica della situazione capitolina, delineata anche attraverso l'analisi di alcune rassegne nazionali in cui è presente la componente romana. Mostre che però non tengono conto della frantumazione linguistica, seguita alla crisi del concettualismo. Infatti alla forte carica di rinnovamento si contrappone lesigenza selettiva del mercato, che non riesce a «sostenere la babele linguistica». Di conseguenza le rassegne degli anni Ottanta si concentrano sulle pratiche artistiche tradizionali, ben assestate nel sistema dell'arte. Il ritorno alla pittura, tuttavia, non costituisce una automatica accettazione delle regole economiche, come dimostrano i Trattisti, che preferiscono le piazze agli studi e alle gallerie. Si è inoltre accennato a tre gruppi antagonisti alle logiche di mercato - eventualisti, piombinesi e astratto poveristi - prendendo in esame un evento che li coinvolge tutti, la mostra-dibattito Nuove avanguardie a Roma, organizzata presso il Centro Studi Jartrakor.

Nel secondo capitolo la dissertazione sulle mostre di ricognizione, romane e nazionali, è stata anche occasione per seguire il dibattito sul cambiamento dell'approccio ermeneutico, approfondito dalle mostre-convegno organizzate dai critici della nuova generazione. L'esigenza di ridefinire la funzione del critico e dell'artista ha determinato la nascita di periodici autoprodotti, in cui le due figure depongono le rispettive diffidenze per impegnarsi nel rinnovamento del sistema dell'arte: «Aut.Trib.17139», «891», «Opening» e «Arte Argomenti».

Tutte queste pubblicazioni manifestano lesigenza di rompere la catena artista-critico-gallerista e comunicare in modo schietto con il lettore. Si entra poi, con il terzo capitolo, nel merito della ricostruzione cronologica delle attività degli spazi autogestiti a Roma tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, di cui la storiografia fa scarsa menzione. Per La Stanza e Sant'Agata de' Goti gli unici studi sono quelli pubblicati da Daniela Lancioni19 nel corso delle sue ricerche sugli anni Settanta, oltre a qualche accenno sulla recente pubblicazione del CRDAV Spazi d'arte20. Non è stato compiuto però uno studio complessivo che renda giustizia alle sperimentazioni attuate in questi laboratori di ricerca, tanto incisivi per il passaggio dalle istanze concettuali al ritorno alla pittura. La dissertazione è stata anche occasione per documentare il clima in cui hanno operato gli artisti, per delineare i loro interessi, che coinvolgono teatro, poesia, e musica. Si è inteso inoltre sottolineare la distinzione tra gli artisti di Sant'Agata e quelli che da questo spazio si trasferiscono al civico 21 della stessa via, Antonio Capaccio e Mariano Rossano, artisti promotori, insieme a Gianni Asdrubali, dell'Astrazione povera. Proprio in questo spazio nasce l'idea di aprire gli studi al pubblico21, con un certo anticipo rispetto alla più conosciuta mostra Extemporanea22 all'Attico. Nel clima settario e un po' utopistico degli anni Settanta nasce anche il Centro Studi Jartrakor, le cui ricerche proseguono per un decennio nella totale auto-emarginazione23. Proprio a partire da quelle premesse si originano le sperimentazioni messe in campo da Domenico Nardone e Daniela De Dominicis a Lascala, spazio interessato a portare l'oggetto-stimolo eventualista nel tessuto urbano.

Il quarto capitolo è invece dedicato agli spazi no-profit, le cui esposizioni sono state analizzate in ordine cronologico. All'interno di questa prassi acquistano un significato importante iniziative come quelle promosse da diverse gallerie, interessate maggiormente a sostenere una linea di ricerca che a vendere le opere: Alice, Il Campo, Arco di Rab, Speradisole, Break Club, OACF58. Pur essendo formalmente spazi autogestiti, L'Alzaia e il Lavatoio contumaciale sono stati inseriti in questa sezione. Sotto la guida di Rossi Lecce, negli anni Ottanta, L'Alzaia infatti smette progressivamente di essere un laboratorio permanente inserito nel territorio e si configura come un centro attivo all'interno di mostre istituzionali di grande rilevanza mediatica. Il Lavatoio, invece, nonostante fosse un'associazione al femminile, legalmente costituita, è stato diretto unilateralmente da Bianca Pucciarelli. Inoltre lo spazio non ha mai raccolto artisti intenti a portare avanti una ricerca comune. Di altra natura è Underwood, un'associazione culturale avviata dai fratelli Fabrizio e Francesco Carbone, artista e giornalista l'uno, fotografo l'altro. Con l'obiettivo di dare dimora a tutte quelle ricerche che crescevano "nel sottobosco", la galleria ha accolto presenze internazionali eterogenee, insieme agli artisti della rivista «891». Ci è sembrato interessante inoltre ricostruire la storia dell'Arco di Rab, unica associazione improntata ad accogliere tutte le componenti del sistema dell'arte (artisti, galleristi, critici, collezionisti, intellettuali esperti in vari campi, semplici fruitori), in una location innovativa, simile a un loft newyorkese, che permette alle opere di dialogare con lo spazio industriale che le ospita. La galleria è tra le prime, insieme a Speradisole, al Break club e alla galleria Stefania Miscetti, ad accettare quel processo di decentramento dell'arte, che dal centro storico si sposta in zone più periferiche.

Le note conclusive si propongono di tirare le fila dell'indagine effettuata, suggerendo possibili percorsi interpretativi. Gli apparati contengono soprattutto le interviste agli artisti, ai quali questo lavoro dà una certa centralità, nell'intento di capovolgere l'idea tradizionale dell'artista ispirato, che necessita del critico per dare significato all'opera. Non si vuole ridurre assolutamente al silenzio la critica, ma far emergere le voci di chi spesso resta muto. Si è scelto di far parlare direttamente i protagonisti che in quegli anni sono stati parte attiva negli spazi di ricerca, svolgendo il ruolo di critici, galleristi e direttori di riviste autoprodotte. Le numerose testimonianze degli attori principali, non tutte confluite in appendice, hanno permesso in parte di colmare le lacune documentarie. L'apparato iconografico a corredo del testo è stato fornito dai diretti interessati ed è in gran parte inedito, dunque costituisce un prezioso strumento di documentazione. Il testo si conclude con la bibliografia generale e specifica di riferimento, articolata al suo interno, anche per spazio espositivo. 

 

Per scaricare il testo in formato pdf 
clicca QUI


mercoledì 2 ottobre 2024

Il Gruppo di Piombino. Da Siena a Firenze (quasi) quarant'anni dopo, 2024

IL GRUPPO DI PIOMBINO
Da Siena a Firenze, (quasi) 40 anni dopo.
ZAP - Zona Aromatica Protetta
vicolo di Santa Maria Maggiore 1, Firenze
12-15 settembre 2024


La prima volta che i tre artisti (Salvatore Falci, Fontana e Modica), che insieme a Cesare Pietroiusti e Domenico Nardone, daranno vita al sodalizio noto come Gruppo di Piombino, furono invitati ad esporre in una mostra pubblica fu in occasione di “Una nuovissima generazione nell'arte italiana”, una mostra curata da Enrico Crispolti ed allestita nella Fortezza medicea di Siena nell'agosto del 1985. Il critico riconobbe e individuò nel loro modus operandi delle peculiarità che li rendevano diversi dagli altri artisti invitati, tanto da spingerlo a creare una sezione della mostra espressamente a loro dedicata - a cui diede il titolo di “Azione partecipata” - e che così definì in catalogo: 

L'artista non propone un'opera, ma un'azione; e non un'azione individuale, ma tipicamente un'azione collettiva (pur attraverso opzioni individuali altrui). Il suo fare si realizza interamente nella partecipazione degli altri. Naturalmente la sollecitazione è comportamentale, psicologica, ideologica, tocca zone profonde, istintualità, resistenze, liberazioni. L'artista propone oggetti da usare, e realizza il senso del proprio intervento attraverso la verifica delle corrispondenze, delle risposte, dunque la loro lettura.

Oggi quelle stesse opere esposte a Siena quasi 40 anni fa, sono di nuovo insieme qui a Firenze in occasione di “Wails & Words on Street Art”.


OPERE IN MOSTRA

Contenitori ideologici di Stefano Fontana. Cinque cassette di pvc, di colore giallo e con sopra stampigliata la scritta in nero "Contenitore ideologico", vennero installate dall'artista, per un periodo di circa quindici giorni, in alcuni spazi pubblici (es. l'atrio di una scuola). I contenitori, provvisti di feritoia per imbucare, somigliavano vagamente alle cassette per la posta o a quelle che in alcuni luoghi particolari venivano destinate a ricevere i "suggerimenti per migliorare il servizio". L'opera fu presentata per la prima volta alla galleria Lascala di Roma nell'aprile 1985. Ogni contenitore venne esposto con accanto il contenuto in esso rinvenuto.



Rilevatore estetico di Pino Modica. L'artista aveva progettato uno strumento che apparentemente serviva a misurare il grado d'inclinazione della Torre di Pisa. In realtà esso celava al suo interno una telecamera, che veniva attivata da un interruttore a campo elettromagnetico ogni qual volta qualcuno accostava l'occhio all'oculare. Il Rilevatore fu successivamente esposto alla galleria Lascala nel novembre del 1985 assieme al breve cortometraggio - intitolato Rilevazioni estetiche - realizzato dagli involontari operatori che, di volta in volta avevano inconsapevolmente attivato la telecamera.


Itaj-Doshin
di Salvatore Falci. L'artista diede questo nome ad una serie di lavori formati da lastre di vetro uniformemente ricoperte di nero e intensamente affollate di graffiti. Queste lastre erano state da lui precedentemente disposte a copertura di alcuni tavoli presenti in diversi spazi pubblici (es.la sala d'aspetto della stazione ferroviaria) e ritirate dopo un certo periodo di "esposizione". Questi vetri raccoglievano quindi la produzione di graffiti lasciata dai frequentatori di tali ambienti, che scambiavano facilmente le lastre così preparate per normali superfici di appoggio.



giovedì 26 settembre 2024

Trilogia di una città sconosciuta di Domenico Nardone

 Trilogia di una città sconosciuta

di Domenico Nardone


per acquistarlo clicca QUI

Questo di Domenico Nardone, assai meglio d’ogni romanzo non necessario, può essere definito, prendendo in prestito un’espressione propria della tradizione narrativa letteraria, un esempio di imperdibile “catasto magico”, in quanto racchiude, custodisce e immagazzina, illimitatamente, con lo stesso puntiglio di un collezionista di memorabilia, l’intero scibile (o quasi) della nostra storia recente e trascorsa. Un po’ come accade con il mondo animale al Museo Civico di Zoologia se s’apre su via Aldrovandi, non lontano da via Paisiello, dominio dei Parioli e del quartiere Salario, la stessa strada che all’alba del 3 febbraio 1960 conobbe la morte di Fred Buscaglione, la sua Ford “Thunderbird” coupé modello 1959 rosa a schiantarsi…
Un volo narrativo radente sull’Urbe. Mitologia, anagrafe, catalogazione, una scia memoriale, topografia residenziale romana, puntiglio da coroner, sorta di “Guida Monaci” della città dei pittori, delle figure oscure e dei semplici astanti davanti alla fermata del 628 (per tutti, a Roma, inspiegabilmente, il “sei e ventotto”). Poi Giorgio De Chirico accanto alla Tomba di Cecilia Metella, e perfino il profilo dell’imperatore Commodo.
Un romanzo “topografico” che lascia intravedere addirittura l’ingresso, era il 4 giugno del 1944, delle truppe Alleate del generale Clark e la sua jeep, precisando che non entrarono dall’Appia, semmai dalla Casilina, costeggiando la borgata del Pigneto dirigendosi verso Porta Maggiore dov’è la Tomba del Fornaio, ciò che nel tempo sarebbe divenuto simbolo di gentrificazione cittadina; le ceneri e la poltiglia non meno memoriale del film “Accattone”, lì girato.
Un “prontuario” di storia dell’arte, del vivente e insieme una mappa di ciò che Roma è stata, dove perfino l’Hemingway, trascorso locale capitolino di via delle Coppelle figura nel racconto, insieme al ricordo dei suoi residenti notturni, l’artista Gino De Dominicis fra loro.
Diversamente da molta letteratura da “truccabimbi”, il romanzo di Nardone brilla invece come un “baedecker” storico, cronistico, esistenziale, restituendo perfino memoria del “Rugantino”, il locale di viale Trastevere, già viale del Re, dove “nasce” la dolce vita, trasfigurato poi in affollato McDonald’s e infine, adesso, agenzia di banca.
Per chi non ne fosse al corrente, anche il pittore Mario Schifano affermava che la luna non sarebbe mai stata sfiorata dal Lem dell’Apollo 11, semmai una semplice messa in scena degli studios di Hollywood.
E molte altre cose e memorabilia ancora nel nostro romanzo-faldone-museo, compresa la citazione del night “Il Pipistrello”, le sue luci non meno lunari, se non da pianeta rosso, spettrografia d’ogni possibile suggestione sessuale.
Questo di Domenico Nardone, va divorato allo stesso modo del libro ormai introvabile su Eugenio Cefis, pagine “nere” che avrebbero suggerito a Pier Paolo Pasolini il romanzo incompiuto postumo “Petrolio”. Grazie a lui, la “città”, ci appare infine svelata.

Fulvio Abbate