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domenica 19 giugno 2011

Dal cinema neorealista alla tv della realtà, 2001

DAL CINEMA NEOREALISTA ALLA TV DELLA REALTA'
di Domenico Nardone

* relazione per il convegno Forme narrative di fine millennio, Asilo Ricci, Macerata, 10-11 maggio 2001. (estratto in Forme narrative di fine millennio, AA.BB. Macerata, maggio 2001)



Secondo un'opinione largamente condivisa dagli storici, la data di nascita del Neorealismo cinematografico va fatta risalire al 1945, anno in cui Rossellini gira Roma città aperta. Il termine fu invece probabilmente coniato dal montatore Mario Serandrei, che lo impiegò per la prima volta nel 1943 riferendosi ad Ossessione di Visconti.
Il portato rivoluzionario della cinematografia neorealista - a cui, a rigor di termini, non vanno riferite più di una quindicina di pellicole - consiste nel prelievo diretto dei dati di realtà e nella loro incorporazione, senza manipolazioni, nell'opera filmica.
Le innovazioni più evidenti introdotte dal Neorealismo per giungere a questo risultato sono essenzialmente:
1. La rinuncia al teatro di posa, per girare nei luoghi dove l'evento è realmente accaduto;
2. L'impiego limitato di attori professionisti, a cui vengono preferiti come interpreti i reali protagonisti della vicenda narrata;
3. L'uso della cinepresa come mero strumento di registrazione, senza una particolare ricercatezza delle inquadrature.
Nella prospettiva di Zavattini, che è sicuramente il teorico più lucido e radicale del movimento e dalla cui collaborazione con De Sica nascono capolavori come Ladri di biciclette, Umberto D. o Miracolo a Milano, la scelta dell'evento da narrare può anche essere perfettamente casuale, dal momento che, come sottolineato dal titolo di un suo celebre saggio, il banale non esiste.
Zavattini riconosce infatti un valore e una pregnanza di significato a qualunque momento della vita di un uomo; nella realtà, in altre parole, non c'è nulla che non valga la pena di essere narrato. Compito della cinepresa è pertanto quello di pedinare passo passo questa realtà e trasporla fedelmente sullo schermo senza alterarne l'autenticità.

Nell'ambito delle arti visive, una posizione in cui per certi versi si riflette l'assunto zavattiniano che il banale non esiste, è quella espressa da Piero Manzoni. Questi rifiuta infatti di limitare il suo essere artista ad un campo di attività codificate e morfologicamente definite, quali ad esempio dipingere un quadro. Per contro egli rivendica con forza il valore artistico di tutta la sua esistenza e delle produzioni ad essa legate, a partire da quelle apparentemente banali e fisicamente tangibili, realizzate dal proprio corpo nel corso del suo funzionamento come macchina biologica.
Questo è infatti il senso di opere quali Fiato d'artista, 1960, una serie di palloncini gonfiati dall'aria espirata dall'artista, quindi sigillati con un piombino e vincolati ad una base di legno; Merda d'artista, 1961, 90 scatolette di conserva, contenenti ciscuna 30 g di merda prodotta e inscatolata dall'artista, il progetto non realizzato di fiale di Sangue d'artista e il concerto mai eseguito Afonia Milano per cuore e fiato.


Piero Manzoni, Fiato d'artista, 1960

"Se io sono un'artista - sembra chiedersi Piero Manzoni - come è possibile che io lo sia soltanto dalle sette alle otto, quando dipingo un quadro dentro il mio studio? Se io sono un artista, lo sono sempre qualsiasi cosa io faccia."
La capacità taumaturgica dell'arte di riscattare la banalità dell'esistenza è poi portata ai limiti del paradosso dalle "sculture vive", realizzate per la prima volta nel 1961, e dalle "basi magiche".
Nel primo caso, l'artista rilasciava ad alcune persone dei certificati da lui firmati con cui ne autenticava come opere d'arte alcune parti, alcuni atteggiamenti o addiruttura l'intera persona vita natural durante.
Le basi magiche sono invece dei basamenti di legno su cui sono sagomate le impronte di due scarpe, accompagnate da una dicitura che dichiara opera d'arte la persona che vi sale sopra e per tutto il periodo che vi rimane.

Ma torniamo al cinema neorealista.
Momento culminate del cinema come pedinamento della realtà - impostazione che prende il nome di poetica del coinquilino - è il film a episodi Amore in città del 1953, concepito da Zavattini come il numero zero di una rivista che doveva avere cadenza semestrale e che invece, con il suo clamoroso insuccesso, cala il sipario sulla grande stagione del cinema neorealista.
Dei sei episodi che compongono il film - a parte Tentato suicidio di Antonioni, che consta di tre interviste ad altrettante donne che hanno tentato di togliersi la vita e L'amore che si paga di Lizzani, che contiene una serie di interviste ad alcune prostitute, veri e propri film-inchiesta che preludono al cinema verità di denuncia sociale - particolarmente significativo è quello, dal titolo Storia di Caterina, firmato da Zavattini e dal giovanissimo Citto Maselli.
Questo episodio narra infatti una vicenda di cronaca realmente accaduta, la storia di una domestica che abbandona il figlioletto illegittimo ai giardini, spiando da lontano le persone che lo raccolgono, per assicurarsi che finisca in buone mani. Il realismo della ricostruzione cinematografica è corroborato dal fatto che, sullo schermo, il personaggio della domestica è interpretato dalla stessa Caterina Rigogliosi, che è la protagonista della vicenda anche nella realtà. L'intero episodio è inoltre girato negli stessi luoghi dove è realmente avvenuto.


Nel 1991, in collaborazione con Carolyn Christov-Bakargiev, organizzai presso le gallerie Alice e Il Campo di Roma, Noire di Torino e lo Studio Casoli di Milano, una mostra itinerante dal titolo Storie. Questa mostra nacque dalla costatazione dell'esistenza di forti elementi di affinità tra la teoria e la pratica del Gruppo di Piombino (Falci, Fontana, Modica e Pietroiusti) ed il lavoro di alcuni artisti stranieri tra cui Sophie Calle, Henry Bond e Christian Marclay.
Il principale elemento di affinità rilevato in queste diverse esperienze era costituito dal prelievo diretto di brani di realtà dalla vita comune e dalla loro riproposizione tel quel come opere d'arte.
Originariamente il titolo della mostra doveva essere spy-stories, che alludeva più apertamente alle modalità vagamente spionistiche (travestimenti, fotografie, riprese e registrazioni ottenute all'insaputa degli interessati, etc.) con cui i prelievi erano realizzati dagli artisti. Quelle che seguono sono le descrizioni delle opere di Sophie Calle, Christian Marclay e Cesare Pietroiusti presenti nella mostra, a cui si aggiungono quelle di altre opere dello stesso Pietroiusti e di Pino Modica che, anche se precedenti o successive a queste, condividono questo modus operandi.

Sophie Calle: Nel 1981, per un periodo di tre settimane, Sophie Calle si fece assumere come cameriera presso un albergo di Venezia. Durante la pulizie delle stanze - come ella stessa scrive - ebbe modo di esaminare gli effetti personali degli ospiti dell'albergo e il modo in cui le persone che si susseguivano nella stessa stanza stabilivano la loro dimora temporanea.
Da questa indagine sul campo risulta una serie di opere dal titolo Hotel, composte ognuna da due pannelli: in uno è inserita la fotografia della camera come si presenta prima di essere occupata, accompagnata da una descrizione verbale dello stato in cui si trova nel momento in cui l'artista entra per rigovernarla, nell'altro sono disposte alcune fotografie che documentano visivamente quanto in essa rinvenuto.


Sophie Calle, Chambre 43, 28 Février / 3 mars, 1983

Christian Marclay: In occasione e per tutta la durata della mostra Storie, l'ingresso della galleria Alice venne chiuso con la porta originale di un appartamento di New York, asportata e inviata da Marclay. Attraverso la porta, il pubblico poteva ascoltare i rumori e le voci provenienti da quell'appartamento incise dall'artista su un nastro all'insaputa dei suoi occupanti. Il titolo dell'opera - 80 East 11th street - corrispondeva all'indirizzo dell'abitazione.

Christian Marclay, 80 East 11th street, galleria Alice, 1991
 
Cesare Pietroiusti: Nel 1990, nella personale presso la galleria Vivita di Firenze, Cesare Pietroiusti presentò per la prima volta le sue Finestre. Queste opere erano costituite da fotografie che, inserite nelle pareti dello spazio espositivo, riproducevano a grandezza naturale quanto si trovava al di là delle pareti stesse, comportandosi come vere e proprie finestre aperte sugli ambienti confinanti, nella fattispecie un deposito della Sotheby's, un gabinetto dentistico e la sede di una loggia massonica. Sempre nello stesso anno, in occasione della mostra Something is happening in Italy curata da Carolyn Christov Bakargiev per la galleria Lia Rumma di Napoli, l'artista espose un 'muro' che riproduceva anteriormente le finestre di un palazzo vicino a cui corrispondevano, sulla faccia posteriore, le vedute degli interni su cui le stesse finestre si affacciavano. Nel titolo di quest'opera - Via Vannella Gaetani 12, Napoli 25 marzo 1990 - si trovava il riferimento all'indirizzo che identificava il palazzo e quello alla data in cui erano state eseguite le fotografie.


Cesare Pietroiusti, Via Vannella Gaetani 12, Napoli, 25 marzo 1990, 1990, cm 210x180x15

Nell'ambito di Storie Pietroiusti propose invece l'opera Visite, in cui eliminava per la prima volta la mediazione del mezzo fotografico e accompagnava gli spettatori, raccolti in piccoli gruppi, a visitare alcuni appartamenti dello stabile in cui si trovava la galleria Il Campo. A seconda degli orari in cui si svolgevano queste visite guidate, gli spettatori avevano la possibilità di osservare gli inquilini dell'appartamento nei loro comportamenti abituali, al di là di un cordone che, come nei musei, interdiceva un eccessivo avvicinamento. Sulla falsariga di Visite è anche Eastender properties, realizzato a Londra nel 1992, in cui però la presenza dell'artista nel ruolo di guida è sostituita da quella di un vero agente immobiliare, che conduce gli spettatori che si prenotano a visitare quindici appartamenti e negozi realmente in vendita o da affittare.
 
Pino Modica: Nel 1998, per realizzare l'opera Interni, Modica ha chiesto ad alcuni nuclei familiari di ospitare, nelle rispettive abitazioni e nella stanza da essi indicata come maggiormente 'vissuta', una telecamera nascosta all'interno di un contenitore di plastica. L'attivazione della telecamera - del cui meccanismo di funzionamento gli ospiti non venivano messi al corrente - era regolata da un sensore che avviava riprese della durata di dieci secondi, ogni qual volta i rumori ambientali superavano una certa soglia d'intensità.
Con queste modalità l'artista ha realizzato tre cortometraggi - tanti quanti i nuclei familiari che hanno accettato di ospitare la telecamera - che risultano dalla giustapposizione cronologica delle brevi sequenze di dieci secondi. In questi film tutto il 'girato' è presentato integralmente, senza operare tagli o manipolazioni di alcun genere in sede di post-produzione.

Nelle soap-opera più recenti - in particolare Un posto al sole - lo scorrere nel tempo degli eventi che si susseguono giornalmente sul piccolo schermo s'identifica con quello della nostra realtà. In altre parole, quando noi festeggiamo il Natale vediamo in televisione la puntata in cui anche gli attori della soap lo festeggiano. Questa identità di tempo aumenta il coefficiente di realisticità della rappresentazione televisiva, contribuendo sempre più a trasformare il piccolo schermo in finestra quotidianamente aperta sull'appartamento dei nostri vicini di casa. Elemento sintomatico di questa trasformazione è l'ineluttabile processo di identificazione dell'attore delle soap con il suo personaggio. Quando lo incrociamo casualmente per strada riconosciamo infatti nella sua fisionomia quella di un volto a noi ben noto - come appunto quello del nostro giornalaio o del barista - che non identifichiamo immediatamente per il suo profilarsi al di fuori del contesto entro cui abitualmente lo percepiamo e quando giungiamo ad identificarlo commentiamo, "Toh! Quello è J.Ar" e non certo "Ma guarda, quello è Gregory Peck!".
Nella gran parte dei casi siamo quindi in grado di ricordare il nome del personaggio che l'attore interpreta nella soap e quasi mai quello dell'attore stesso. Un altro elemento che concorre decisamente a questo intrappolamento dell'attore nei panni del personaggio che rappresenta è l'incorporazione nel personaggio di elementi che appartengono alla vita reale dell'attore: ad esempio, quando un'attrice rimane realmente incinta, il suo personaggio porta tranquillamente avanti la gravidanza anche nella finzione televisiva, quando un attore si rompe realmente un braccio, se lo rompe anche il suo personaggio e via di questo passo. Il plot delle soap-opera finisce per avere una configurazione ad albero che delinea un campo di possibili intrecci narrativi che vengono intrapresi o meno anche in funzione di quanto avviene nella vita reale degli attori (l'attore che decide di rompere il contratto viene per solito fatto morire, quello che deve assentarsi dal set per girare un film viene fatto partire per un lungo viaggio, etc.).
Il realismo con cui le soap-opera finiscono per rappresentare la vita quotidiana che potrebbe svolgersi nell'appartamento accanto, su cui il piccolo schermo si apre come una finestra per circa trenta minuti al giorno, si ribalta paradossalmente nella finzione assoluta messa in scena dai format tipo Il Grande Fratello, che pure dovrebbero costituire la formulazione più radicale di televisione della realtà.
Nel Grande Fratello, anzichè degli attori professionisti, gente qualunque, selezionata attraverso dei provini, viene posta sotto l'occhio delle telecamere ed inquadrata ventiquattr'ore su ventiquattro per un periodo di due o tre mesi, all'interno di uno studio televisivo trasformato in appartamento privato.
Gli elementi di continuità con le soap-opera che ricorrono in questi format riguardano essenzialmente la frequenza di messa in onda, che è grosso modo identica, circa trenta minuti al giorno, e la struttura narrativa di questa striscia, articolata in entrambi i casi in brevi episodi che hanno uno svolgimento parallelo.
Per contro, se nel caso delle soap ci troviamo di fronte a degli attori professionisti che interpretano il ruolo di nostri potenziali vicini di casa e progressivamente con questi finiscono per essere identificati, nel caso del Grande Fratello non assistiamo più all'identificazione di un attore con il suo personaggio - per la semplice ragione che in scena non c'è nessun attore - ma alla trasformazione di una persona qualsiasi, del nostro reale vicino di casa, in personaggio, in attore che interpreta se stesso come ruolo.
Se inoltre, sempre nel caso delle soap opera, uno studio televisivo finisce per assumere le sembianze dell'appartamento dei nostri vicini, nel caso del Grande Fratello è viceversa un ipotetico appartamento qualsiasi - per quanto costruito ad hoc - ad assumere quelle di studio televisivo.
Le relazioni che s'intrecciano tra gli ospiti della casa del Grande Fratello, e le trame che vi si svolgono, non avvengono poi del tutto spontaneamente, esistono cioè delle indicazioni di regia che orientano le dinamiche di gruppo, al fine di mantenere viva l'attenzione dello spettatore, più o meno paragonabili a quelle utilizzate nello psicodramma - ad esempio: provi un'attrazione per quella persona? Approfondiscila.
Gli autori del programma stendono quindi, giorno per giorno, un canovaccio narrativo di massima, su cui gli ospiti della casa sono chiamati a lavorare, contribuendo con ciò a trasformare delle persone reali in attori che interpretano se stessi come ruolo.
La trasformazione di se stessi in ruolo da recitare davanti alle telecamere rappresenta il massimo della falsificazione del reale che si possa raggiungere, significativamente la televisione perviene a questo risultato proprio quando dichiara di trasmettere in diretta, ventiquattr'ore su ventiquattro, lo svolgersi di un evento reale.

L'istanza di ricerca del vero e dell'autentico, che nel cinema neorealista e nelle opere degli artisti precedentemente citate, abbiamo visto presiedere al prelievo diretto e all'incorporazione senza manipolazioni dei dati fattuali nello statuto delle opere, si rovescia, nell'impianto spettacolare del Grande Fratello, nel suo contrario.
Se infatti il Neorealismo, ponendo l'esistenza e l'esperienza dei poveri e della gente comune al centro della scena, ne promuove l'umanità e la dignità di soggetti sociali; così come le opere degli artisti citati, appuntando l'attenzione sul valore di autenticità e sulla singolarità delle storie comuni e delle esperienze apparentemente ripetitive, riscattano i vissuti individuali dall'alienazione dello stereotipo e ci restituiscono l'identità di soggetti; la conversione dell'autenticità e singolarità del vissuto di una persona in ruolo da recitare, attraverso la necessaria derealizzazione a cui questa viene condotta, si conclude, viceversa, in una nebulizzazione del soggetto nel corso della sua perdità d'identità.
La singolarità irripetibile della persona umana si trova ad essere sostituita dalle inquietanti fattezze di un sembiante che ne replica, degradati a stereotipi, gesti ed abitudini.

Concluderei citando proprio un film neorealista che, per certi versi, anticipa e mette in guardia dall'evoluzione, nel senso della disumanizzazione e derealizzazione a cui espone il soggetto, della macchina dello spettacolo. Il film è Bellissima di Visconti, nel cui finale Anna Magnani, dopo aver brigato per quasi tutta la durata della pellicola per introdurre la figlioletta, in cui proietta il sogno della propria emancipazione sociale, nel mondo del cinema, decide di ritirarla dal concorso di bellezza per bambini proprio nel momento in cui è stata adocchiata da un famoso regista, rendendosi improvvisamente conto che l'ingresso in questo mondo apparentemente dorato si paga con la perdita e l'annichilimento proprio dei valori più autentici, quali l'amore materno e l'innocenza infantile, che concorrono a definire l'unicità della condizione umana e per i quali alla fine opta.



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