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domenica 12 giugno 2011

Il profeta e l'archeologo

Il profeta e l'archeologo
di Domenico Nardone

Questo breve intervento fu da me presentato con il titolo Il profeta e l'archeologo su richiesta di Simonetta Lux al termine di una conferenza tenuta da Giulio Carlo Argan e da lei organizzata presso l'Istituto di Storia dell'arte contemporanea agli inizi del 1984.
La mia conferenza alla biblioteca comunale di Piombino, organizzata da Pino Modica, è del 25 febbraio 1984 e s'intitolava Dalla fruizione estetica all'uso estetico. Purtroppo il testo completo è disperso. Quello qui riprodotto, almeno a giudicare da alcune citazioni apparse sulla stampa locale dell'epoca, che tra l'altro mi indica come discepolo di Argan che conobbi ed andai a trovare a casa solo dopo l'occasione sopra citata, ne doveva costituire l'introduzione.



Se da un lato – come del resto suggerisce lo stesso etimo greco della parola (criticare deriva da κρίνω=scegliere) – è vero che la scelta è uno degli istituti portanti della critica, dall'altro, mai come oggi, proprio una scelta si è configurata come l'atto preliminare, autentica posizione di partenza di qualsivoglia discorso critico sull'arte.
La scelta in questione è quella tra le corna opposte di un dilemma che potremmo sinteticamente esprimere nel seguente modo:
1) o si accetta di considerare arte ciò che, da un punto di vista eminentemente morfologico, appare affine o correlabile a quanto storicamente sappiamo, chiamiamo arte.
2) o si accetta, viceversa, l'ipotesi che l'arte possa essersi trasformata in qualcosa che non abbia più niente a che fare con tutto ciò che storicamente sappiamo, chiamiamo arte.

Il carattere preliminare e cruciale della scelta tra le alternative espresse dal dilemma mi sembra fuori discussione: in definitiva quella che si pone è infatti una scelta tra diversi campi d'indagine. Accettando la prima alternativa ci si orienta verso la ricerca microscopica di tutti quei segni di vitalità minimale che ancora animano e percorrono il corpo, bloccato nell'inerzia della morte (rigor, algor, livor, esprimono una attività biologica, minimale e residua, che ha pur sempre luogo nel milieu del corpo); ricerca questa che assume pertanto come oggetto una gamma di fenomeni indiscutibilmente nuovi (i processi autolitici e putrefattivi dell'arte), pur tuttavia inscritta in un contesto ampiamente noto ( il corpo dell'arte come storicamente lo conosciamo).
Continuando a costeggiare la metafora, si possono agevolmente intravedere i tratti salienti propri dell'arte e della critica che si fanno carico di questa risposta al dilemma: se infatti i nomi e le figure della propria storia altro non sono che gli organi e i tessuti del corpo dell'arte, allora l'attività residua che ha luogo nel cadavere di questa non potrà che somigliare a quella dei germi della putrefazione che, eretto il cadavere a propria dimora, vi pascolano impunemente, cibandosi di tutto quanto risulta loro appetibile (brandelli e frammenti di pancreas-Klee, di fegato-Van Gogh, etc.) e la critica, che tale attività intenda indagare e promuovere, non potrà assomigliare ad altro che alla scienza tanatologica, incaricandosi di discernere e individuare la provenienza dei frustoli di tessuto di volta in volta rinvenuti nel ventre dei batteri.

Verso tutt'altri lidi, viceversa, si dirigeranno coloro che avranno deciso di far propria l'ipotesi espressa dalla seconda alternativa. Postici in in questa prospettiva, dovremo infatti recidere tutti i legami con il continente vecchio dell'arte, puntare diritto au fond de l'Inconnu pour trouver du noveau!
Consci dei rischi molteplici e dei trabocchetti che infestano la nostra strada – esploratori e scopritori, si sa, errano sovente: possono scambiare le Americhe per le Indie, l'ossigeno per ossido di azoto e via dicendo – ma altrettanto consci che essa sia l'unica praticabile, nonostante i possibili errori, al fine di restituire all'arte quel ruolo, attivo e determinante in seno al processo conoscitivo che la precedente alternativa le nega.

Quest'ultima linea di ricerca, è bene rammentarlo, non si differenzia dalla prima nel voler ignorare la morte dell'arte – nozione che a ben vedere costituisce la premessa comune ad entrambe le alternative – ma nel voler connettere a questa morte il significato di trasformazione irreversibile, nell'ambito di un processo evolutivo che non per questo si arresta; mera morte del corpo quindi, inteso come definizione morfologica dell'arte, ma non del valore, che al contrario si suppone persistere sotto altre spoglie.
Non si tratta pertanto di astrarsi dalla storia quanto di porsi al centro del suo flusso, di cogliere nella morte dell'arte la spinta propulsiva che contiene, ancora con Baudelaire, in definitiva: O Mort, vieux capitaine, il est temps! Levons l'ancre!
Se è quindi vero, per concludere, che le Avanguardie hanno sospinto l'arte sull'estremo limite del baratro, oltre il quale c'è la dissoluzione della definizione morfologica di questa, allora, una volta accettata la seconda alternativa, non potremo certo, come critici, seguire le evoluzioni del gambero citazionista o ipermanierista, saremo, viceversa, al fianco degli artisti che, dinanzi al baratro non arretrano ma si addestrano al volo.

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