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domenica 19 giugno 2011

Relazione per il convegno Il nuovo sistema dell'arte, 1987

Relazione per il convegno Il nuovo sistema dell'arte, Internazionale d'arte contemporanea , Milano 26-28 maggio 1987
di Domenico Nardone




   L'intervento più attinente al tema di questo convegno è stato fin'ora quello di Alan Jones, nella prima giornata. Attraverso la cronaca dettagliata delle ultime due stagioni newyorkesi, la sua relazione ha messo infatti in evidenza alcune trasformazioni realmente prodottesi in seno al sistema dell'arte americano.
Emblematico, in questo senso, mi è sembrato il caso, da lui descritto, di Collins e Milazzo, due critici che - non essendo titolari di una galleria né lavorando in esclusiva per una di esse – curano una serie di mostre di tendenza presso diverse gallerie, in maniera tale che, alla fine della stagione, risulta definita la linea di una “galleria” che non s'identifica con uno spazio fisicamente determinato ma, eventualmente, con un numero di telefono. Le royalties che Collins e Milazzo percepiscono sugli utili realizzati dalle gallerie ospiti con la vendita delle opere contribuisce a definire, anche sotto il profilo economico, la loro attività nei termini di veri e propri galleristi atipici.
Ora, non senza stupore ho notatoche nessuno degli esponenti più o meno rampanti della categoria qui più largamente rappresentata – la critica giornalistica – si è fatto carico di un compito analogo a quello svolto da Alan Jones, descrivendo alcune delle altrettanto evidenti innovazioni prodottesi mel sistema dell'arte italiano o europeo.
Cosicchè ho deciso – pur non essendo un critico giornalista – di prendermi la briga di colmare, anche solo per accenni, una lacuna d'informazione che non mi aspettavo di trovare.

Parlerò quindi, in primo luogo del lavoro di Laurent Jacob. Jacob è di nazionalità belga e dirige a Liegi una galleria, Espace 251 Nord, che ha organizzato delle mostre molto particolari.
Lo scorso anno (1986), ad esempio, ha organizzato una mostra presso la casa Frollo di Venezia. Casa Frollo è in realtà un albergo e ogni artista invitato doveva curare l'allestimento di una stanza, cosicchè i clienti, alla reception, trovavano queste ultime contrassegnate da un numero d'ordine e dal nome dell'artista che ne aveva curato l'allestimento, potendo quindi anche scegliere in base a questo parametro.
Simile a questo è anche il progetto a cui Jacob sta attualmente lavorando ed in cui il concetto applicato alle stanze d'albergo sarà applicato alle cabine di una nave da crociera.
Molto interessante è anche la prima delle manifestazioni di rilievo da lui curata, Place St Lambert Investigations (1985): la mostra era ambientata in una enorme stazione d'autobus sotterranea, mai entrata in funzione come tale, a Liegi. Johan Muyle, ad esempio, espose in questo contesto Le regard Atlantide, un autobus al cui interno aveva disseminato le tracce di una ipotetica avvenuta strage: fori di proiettile, silhouettes di gesso a designare il contorno dei corpi portati via, etc.. L'opera non era espressamente segnalata come tale.

Johan Muyle,  Le regard Atlantide, installazione, 1985

Sempre in quest'ambito, infine mi sembra doveroso ricordare Chambres d'amis, realizzata a Gand da Kaspar Konig, in cui la mostra era ospitata nelle case private di alcuni collezionisti che venivano aperte al pubblico per la prima volta.

Per quanto riguarda il panorama italiano, viceversa, una sperimentazione interessante è stata portata avanti negli ultimi anni in un settore – quello accademico delle cattedre di Storia dell'arte contemporanea – abitualmente considerato poco vitale.
Alludo al lavoro iniziato a Roma da Nello Ponente e proseguito dopo la sua scomparsa da Simonetta Lux, volto a trasformare la cattedra di Storia dell'arte contemporanea in una struttura dinamica ed a diretto contatto con la realtà del sistema dell'arte – vedi l'integrazione alla normale didattica di lezioni tenute da artisti, critici, galleristi e collezionisti – processo di trasformazione recentemente culminato nell'acquisizione di una struttura espositiva, pensata dalla Lux nei termini di un museo sperimentale. Sembrerà strano ma, per l'Italia, si tratta di un esempio praticamente isolato.
Ciò detto, mi sembra interessante notare come Laurent Jacob non abbia mai corredato la mostre da lui curate con un suo testo in catalogo- anzi credo non abbia mai pubblicato nulla – e Simonetta Lux abbia una produzione letteraria nel complesso molto ridotta. Nondimeno, rappresentano due dei migliori esempi di critica operativa che conosca, di una critica cioè che, sulle orme di Novalis, ritiene che le teorie sono come le reti: solo chi le getta pesca.
Dove l'espressione gettare la rete, pur conservando l'ambiguità semantica in essa insita, sta per il lavoro sul campo, l'unico che possa decidere della validità o meno di una teoria, rivelandone, nei risultati che essa è in grado di conseguire, l'esatta portata.

In questo stesso filone s'inserisce – sia pure più modestamente – il mio lavoro di critico.
Nel 1983 infatti mi sono dimesso – dopo tre anni di appartenenza – dalla redazione della Rivista di Psicologia dell'Arte e ho deciso di non scrivere più recensioni o articoli di commento per le riviste specializzate.
Ho invece aperto, insieme ad alcuni soci, una galleria, Lascala, nel cui ambito ho intrapreso un'attività di ricerca assieme ad un gruppo di giovani artisti (Falci, Fontana, Modica e, successivamente, Pietroiusti).
Per due stagioni abbiamo utilizzato la galleria più che altro come un setting sperimentale, nel cui contesto era possibile affrontare i problemi espositivi posti dal particolare tipo di ricerca che andavamo conducendo. Taglio di gestione questo, avvalorato anche dalla sostanziale avulsione dal mercato, al quale non avremmo saputo del resto cosa vendere, trovandosi il lavoro in una fase di gestazione e messa a punto.
Sulla scorta dell'esperienza maturata in questo periodo, nonché delle indicazioni specifiche fornite dalla pratica sperimentale, all'inizio di questa stagione la galleria Lascala ha cessato di esistere come tale per trasformarsi in una sorta di agenzia – Lascala c/o – che avrebbe dovuto produrre delle mostre in spazi non convenzionali.
Di fatto, il successo inaspettatamente ottenuto con la prima mostra realizzata in un bar, ci ha indotto a condurre l'intera stagione in questa sede.
Attualmente l'attività di questa galleria sperimentale è integrata a quella di una galleria vera e propria – lo Studio Casoli di Milano – presso cui svolgo la mia funzione di critico.

Nei dettagli, il programma di ricerca a cui stiamo lavorando verte sulla possibilità di recuperare all'arte quella centralità gnoseologica e di funzione, in seno alla nostra cultura, che va invece sempre più perdendo.
Nella pratica, questo programma ha preso attualmente la forma di un intervento diretto nella relazione tra oggetto percepito e soggetto percipiente, relazione in cui ravvisiamo la tendenza a cristallizzarsi nello stereotipo dell'utilizzazione, in cui l'oggetto non viene più percepito nella sua globalità ma solo per la funzione che è stato predisposto a svolgere.
Per quanto riguarda le formalizzazioni a cui da' adito un approccio teorico di questo genere, descriverò brevemente due esempi che rispondono ad altrettante e complementari possibilità di soluzione, che definisco rispettivamente rilevamento e ri-progettazione.
Nel primo caso, l'artista si pone il problema di rendere percettivamente evidente il risultato di una interazione specifica – spontaneamente verificatasi – tra un oggetto comune e colui che ne fa' uso.
Entro questa logica s'inscrive un lavoro come Camel I (1987) di Pietroiusti che riproduce fedelmente – su scala 20 volte maggiore – un pacchetto di camel incredibilmente alterato da un anonimo.
Nel secondo caso, viceversa, l'artista introduce, nella forma standard di un determinato utensile, alcuni elementi lievemente anomali ed incongrui, sufficienti però a determinare, nell'uso del pubblico una serie di deviazioni che rispondono ai tentativi di ricondurre l'oggetto ad una interpretazione stabile. Questa soluzione è efficacemente rappresentata dai Contenitori ideologici (1985) di Stefano Fontana, ri-progettazione di una buca per le lettere, collocati senza ulteriori indicazioni nel contesto urbano ed in cui, le deviazioni d'uso da essi indotte, si riscontrano nella straordinaria peculiarità dei materiali rinvenuti al loro interno



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