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venerdì 10 giugno 2011

Ritorno a Piombino

RITORNO A PIOMBINO

di Domenico Nardone, pubblicato in catalogo mostra Ritorno a Piombino, Galleria Primo Piano, Roma 1999.



 

   Nel maggio del 1987, in una mostra allestita presso lo stand dello Studio Casoli alla II Internazionale d'Arte Contemporanea di Milano, Falci, Fontana, Modica e Pietroiusti si presentano insieme per la prima volta.
La mostra curata nel luglio del 1991 da Catherine Arthus-Bertrand per l'Art Contemporain Guerigny può invece essere considerata, a tutti gli effetti, come l'ultima esposizione del gruppo.
L'esperienza del Gruppo di Piombino, intesa come pratica militante, abbraccia quindi un arco di circa cinque anni che si colloca tra la seconda metà degli anni ottanta e i primi anni novanta.
Rileggendo i miei scritti di allora, mi rendo conto che c'è qualcosa a cui non ho praticamente mai fatto cenno. Non ho mai neppure provato a raccontare il processo di formazione del gruppo, il che, per un movimento che tendeva a privilegiare il processo di produzione rispetto al prodotto finito, appare per lo meno imbarazzante. Il testo che segue volto appunto a colmare questa strana lacuna.

Fin quasi alla fine del 1982 lavoravo, assieme a Cesare Pietroiusti, presso il Centro Studi Jartrakor diretto da Sergio Lombardo. Conseguentemente pubblicavo i miei articoli sulla Rivista di Psicologia dell'Arte, edita dallo stesso Centro Studi. L'anno precedente avevo pubblicato Arte eventuale, un breve saggio in cui cercavo di formalizzare la teoria dell'arte intorno a cui tutti noi stavamo lavorando.
Nel gennaio del 1983 lasciai Jartrakor e, assieme a Daniela De Dominicis ed Antonio Lombardi, aprii, negli spazi di una chiesa sconsacrata e appartenente al complesso della Scala Santa, la galleria Lascala.
Il nocciolo della teoria che andavo elaborando verteva sulla possibilitdi produrre un'arte sperimentale, la cui efficacia fosse cioè verificabile, analogamente a quanto avviene per le ipotesi scientifiche, attraverso specifiche procedure.
Il dissenso che mi aveva portato a separarmi da Lombardo e dal gruppo di Jartrakor è sufficientemente esemplificato da una discussione che ebbi con lui a proposito delle sue Sfere con Sirena.
Nel 1970, nella sala della Biennale di Venezia a lui dedicata, Lombardo aveva esposto sette sfere di diverso colore, contenenti al loro interno un interruttore a mercurio che, al minimo spostamento provocato dai visitatori, innescava l'urlo di una sirena d'allarme. Nel corso della nostra discussione, Lombardo mi disse di aver notato all'epoca che il pubblico, passato un iniziale momento di smarrimento, si divertiva a far rotolare le sfere, eseguendo una sorta di concerto improvvisato. Conseguentemente a questa osservazione, disse che gli sarebbe piaciuto "esporre" le sfere in un auditorium, lasciando al pubblico la possibilità di suonarle come strumenti. Cosa che effettivamente fece con un lavoro successivo, i Concerti Matematici, che furono eseguiti, tra l'altro, al Teatro Beat 72. Da parte mia, sostenevo invece che, al suo posto, avrei voluto installare le sfere agli angoli delle piazze, senza alcuna indicazione d'uso.
La strada che mi accingevo ad intraprendere era quella di un inserimento nel contesto urbano di oggetti dotati, per così dire, di una doppia personalità da una parte dovevano simulare una funzionalità nota, tale da non indurre nell'ambiente una reazione di isolamento e di rigetto di un corpo assolutamente estraneo, dall'altra dovevano contenere degli elementi di incongruenza rispetto a questa funzionalità tali da indurre negli occasionali fruitori una riconsiderazione globale dell'oggetto in questione.
In altre parole, un oggetto, cristallizzato in uno schema percettivo dalla ripetizione dell'uso che abitualmente ne facciamo, grazie ad una "manomissione" operata dall'artista, avrebbe incrinato e messo in crisi questo schema, ribellandosi alle normali modalità d'impiego.
A questa impostazione - la cui formulazione viene fatta precedere alla descrizione delle opere per mera comodità d'esposizione - possono ricondursi i lavori degli artisti che seguono.

Contenitori ideologici di Stefano Fontana. Cinque cassette di pvc, di colore giallo e con sopra stampigliata la scritta in nero "Contenitore ideologico", erano state distribuite dall'artista, per un periodo di circa quindici giorni, in alcuni spazi pubblici (es. l'atrio di una scuola). I contenitori, provvisti di feritoia per imbucare, somigliavano vagamente alle cassette per la posta o a quelle destinate in alcuni luoghi a ricevere i "suggerimenti per migliorare il servizio". L'opera fu presentata per la prima volta alla galleria Lascala di Roma nel 1985. Ogni contenitore venne esposto con accanto il contenuto in esso rinvenuto.

Rilevatore estetico di Pino Modica. L'artista aveva progettato uno strumento che apparentemente serviva a misurare il grado d'inclinazione della Torre di Pisa. In realtà esso celava al suo interno una telecamera, che veniva attivata da un interruttore a campo elettromagnetico ogni qual volta qualcuno accostava l'occhio all'oculare. Il Rilevatore fu esposto alla galleria Lascala nel 1985 assieme al breve cortometraggio - intitolato Rilevazioni estetiche - realizzato dagli involontari operatori che, di volta in volta avevano inconsapevolmente attivato la telecamera.

Ad un'impostazione analoga riconducibile anche l'opera N Titoli di Cesare Pietroiusti che verrà discussa più avanti. Seguendo invece un ordine cronologico è opportuno descrivere adesso altre due mostre.

La personale di Cesare Pietroiusti tenutasi nel 1984 allo Spazio Sperimentale Jartrakor di Roma. In questa occasione l'artista espose per laprima volta delle tele di grande formato in cui, tramite semplici tecniche di ingrandimento e riporto su superficie "pittorica", riproduceva su grande scala alcuni scarabocchi, selezionati da una raccolta di carte già cestinate dagli autori, vecchi diari di scuola, foglietti che avevano già assorbito e fedelmente registrato le tensioni represse di ignoti professionisti impegnati al telefono in asettici colloqui d'affari (1).

Itaj-Doshin di Salvatore Falci. In questa mostra, che concluse nel dicembre 1985 l'esperienza della galleria Lascala presso i locali di piazza San Giovanni, Falci presentò cinque lastre di vetro uniformemente ricoperte di nero e intensamente affollate di graffiti. L'artista aveva precedentemente disposto le lastre a copertura di alcuni tavoli presenti in tre diversi spazi pubblici (es.la sala d'aspetto della stazione ferroviaria), ritirandole dopo un certo periodo di "esposizione". Questi vetri raccoglievano quindi la produzione di graffiti lasciata dai frequentatori di tali ambienti, che scambiavano facilmente le lastre così preparate per normali superfici di appoggio

Entrambe le mostre maturarono nell'ambito di un clima culturale dominato dal fenomeno del Graffitismo americano, a cui dichiaratamente si contrapponevano. Alla involontarietà simulata delle pitture murali dei graffitisti opponevano infatti l'involontarietà assoluta di scarabocchi e graffiti trovati ed estrapolati direttamente dalla realtà quotidiana (2). Anche se l'estrapolazione, in quanto tale, non ha mai la neutralità del semplice prelievo, persistendo una mediazione (il riporto su tela nel caso di Pietroiusti e il rovesciamento delle lastre nel caso di Falci) in cui prende corpo e si configura il lavoro dell'artista.
Con la mostra Itaj-Doshin si conclude, come già detto, l'esperienza della galleria Lascala e si apre quella di Lascala c/o. La mia idea originaria era quella di abbandonare la galleria, intesa come spazio espositivo stabile e connotato come tale, per creare una struttura itinerante, capace di trasformare di volta in volta qualsiasi luogo in spazio espositivo. In questa chiave il bar-ristorante Il desiderio preso per la coda, di proprietà di alcuni miei amici, non doveva essere che laprima tappa dell'itinerario de Lascala c/o. In realtà per una serie di ragioni diverse, finì per rimanere l'unica e realizzai lì una serie di mostre (3).
Per quanto riguarda il Gruppo di Piombino, nell'ambito de Lascala c/o Il Desiderio preso per la coda, ci furono le seguenti esperienze:

N Titoli di Cesare Pietroiusti. Per questa mostra Pietroiusti realizzò una serie di tovaglie di carta che, per quindici giorni, furono spiegate sui tavolini del bar in sostituzione di quelle normalmente in uso. La particolarità di queste tovaglie consisteva nel recare impresse delle macchie, che l'artista aveva ottenuto riproducendo e stilizzando alcuni elementi realmente presenti nell'ambiente (es. l'ombra di una lampada sul muro, il motivo decorativo del divano, etc.). Accanto ad ogni tavolino, per l'intero periodo, furono inoltre collocati dei bicchieri contenenti alcuni pennarelli colorati di cui gli avventori potevano liberamente servirsi. Terminata questa fase di esperimento, Pietroiusti intelaiò le tovaglie scarabocchiate e le espose come quadri nel corso di una inaugurazione del tutto simile a quelle convenzionali. In pratica Pietroiusti utilizzò nel corso di questa operazione, lo stesso spazio fisico secondo due diversi statuti: in un primo tempo come setting sperimentale, ovverosia come bar, in un secondo come spazio espositivo vero e proprio (4).
Questa mostra del febbraio 1987, che vide da parte dell'artista l'abbandono della sperimentazione "in laboratorio" e della mediazione pittorica a favore di una sperimentazione condotta sul campo e di una maggiore adesione al dato reale nella tecnica di isolamento e presentazione (5), segnò anche il definitivo distacco di Pietroiusti dal gruppo Jartrakor e l'inizio del sodalizio con gli artisti di Piombino ed il loro "curioso" teorico (6).

Azioni costanti di Salvatore Falci. Il mese successivo, Falci presentò per la prima volta i suoi pavimenti. Si trattava di lastre bianche di masonite uniformemente verniciate di nero, che l'artista aveva disposto in alcuni ambienti a guisa di pavimenti di linoleum. Ritirate dai pavimenti dopo un determinato intervallo di tempo, queste lastre vennero esposte alle pareti de Il Desiderio preso per la coda. In relazione al tipo di ambiente da cui provenivano, tutte recavano incise come a graffito le tracce impressevi dai movimenti dei piedi di coloro che vi avevano camminato sopra.
In origine, la mostra di Falci avrebbe dovuto avere lo stesso andamento di quella di Pietroiusti. La superficie di masonite avrebbe dovuto essere installata sul pavimento stesso del bar-ristorante e successivamente esposta sul soffitto di questo. Ragioni di ordine tecnico e logistico - che oggi non ricordo più con precisione - c'impedirono di realizzare la mostra secondo questo progetto e l'artista espose tre grandi pavimenti provenienti rispettivamente dal bar della stazione, dall'androne di una scuola e da un pub di Piombino.

Emettitore-Ricevitore di Stefano Fontana. Questa operazione ideata da Fontana si risolse in realtà in un fallimento pressochè completo.
L'artista aveva installato, in cinque punti della città di Roma, considerati come particolarmente frequentati dal pubblico dell'arte (es. la Facoltà di architettura, una libreria specializzata, etc.), altrettanti distributori gialli che 'emettevano' i cartoncini d'invito della mostra. Nel bar-galleria si trovava esclusivamente un contenitore dello stesso colore, in cui l'ipotetico visitatore non avrebbe potuto far altro che imbucare il cartoncino di cui si trovava in possesso.
In una circolarità autoreferenziale, il comportamento stereotipato di cui questa operazione avrebbe dovuto svelare la ritualità, era proprio l'atto di recarsi a visitare una mostra, l'unica cosa che il potenziele visitatore avrebbe potuto contemplare non sarebbe stata altro che il suo percorso esperenziale dal momento in cui aveva ritirato il cartoncino dall'emettitore a quello in cui l'aveva imbucato nel ricevitore.
Questo percorso rimase tuttavia allo stato latente: nessun visitatore infatti lo tradusse in pratica. L'unico risultato fu la perdita di due emettitori (7).

Il progetto elaborato da Modica per Lascala c/o si chiamava Labyrinth and/or game. Nella saletta riservata del ristorante, avrebbero dovuto essere installati un pannello raffigurante un labirinto ed una freccia luminosa con cui un ipotetico giocatore avrebbe potuto percorrerne il tracciato. Una telecamera nascosta, con l'inquadratura fissa sul pannello, avrebbe rimandato l'immagine sullo schermo di un mobile da videogame, collocato nella sala principale. I frequentatori de Il Desiderio preso per la coda si sarebbero quindi imbattuti in un mobile da videogame del tutto simile a quelli all'epoca in uso, eccezion fatta per l'assenza di tutti gli elementi - manopole, pulsanti, gettoniera - che avrebbero consentito d'interagirvi. Sullo schermo avrebbero continuato a scorrere, imperturbabili, i tracciati eseguiti da chi stava contemporaneamente utilizzando la freccia luminosa nella seconda sala.
Pino Modica, Labirynth and/or game, progetto
 
Questa operazione, ancor più esplicitamente che il precedente Rilevatore estetico, si configura come situazione-problema. Il fruitore di Labyrinth and/or game si trova ad affrontare un'esperienza - intrattenersi con un videogioco - dagli esiti apparentemente molto prevedibili, che si trasforma inaspettatamente tra le sue mani in problema da risolvere (come interagire con il gioco). A differenza di quanto avviene con il Rilevatore, in questo caso una soluzione esiste realmente e consiste nello stabilire la relazione tra l'installazione presente nella seconda sala e le immagini che scorrono sullo schermo del videogame. Le strategie di problem-solving, messe in pratica dal giocatore nel tentativo di venirne a capo, concretano quella riqualificazione dell'esperienza quotidiana che è uno dei principali obiettivi dell'arte piombinese.
Questo progetto, ad ogni modo, non fu mai realizzato presso Il Desiderio preso per la coda. Labyrinth and/or game fu invece installato da Modica in una sala giochi l'anno successivo. Dopo una sola giornata, il gestore della sala rifiutò di tenerlo ulteriormente perchè attirava talmente l'attenzione dei giocatori da distoglierla dai giochi a pagamento.

Ai primi di gennaio del 1987, mentre era in corso il programma di mostre appena descritte, mi ero recato a Milano, nella speranza di trovarvi un ambiente più ricettivo per l'arte che sostenevo. Sergio Casoli fu la prima ed unica persona che incontrai, in un modo del tutto casuale giacchè come lui ama spesso ricordare, quel giorno non doveva neppure essere in città. Casoli mostrò subito di apprezzare il lavoro dei quattro artisti e, dopo una quindicina di giorni, mi restituì la visita a Roma, dove vide per la prima volta dal vero alcune loro opere. Nacque così l'idea di presentare gli artisti di Piombino nello stand delle nuove proposte, che la Fiera di Milano aveva offerto allo Studio Casoli e ad altre sei giovani gallerie milanesi.

Lo stand dello Studio Casoli alla II Internazionale d'Arte Contemporanea di Milano.
Da sinistra a destra: Camel I di Cesare Pietroiusti, Scuola elementare di Salvatore Falci, il Rilevatore estetico di Pino Modica ed un Contenitore ideologico di Stefano Fontana. 

Da questo momento in poi Falci, Fontana, Modica e Pietroiusti cominciano ad essere invitati a partecipare a mostre importanti e le loro opere ad essere pubblicate sulle riviste specializzate con sufficiente regolarità. La storia successiva del gruppo è quindi, per certi versi, una storia ufficiale e non più sotterranea ed esorbita pertanto da questa trattazione.
Di pari passo all'ufficializzazione procede invece , a mio avviso, più o meno inevitabilmente, la decadenza dell'arte di Piombino che finisce per soffrire della contiguità impostale dal sistema, con un'arte coeva dai tratti chiaramente crepuscolari.
Se è ben vero che le avanguardie devono muoversi tra la folla come i pesci nell'acqua, altrettanto vero è che in quest'acqua possono anche affogare. In altre parole, se è necessario che un'arte rivoluzionaria, almeno in una fase della sua crescita, figuri in un contesto ufficiale - viceversa si trasforma irrimediabilmente in fenomeno d'emarginazione - dall'altra l'appartenenza a questo contesto finisce progressivamente per snaturarla e omologarla. Questo anche se, almeno nei confronti delle procedure di omologazione più evidenti - come quella di dividere il gruppo sostenendo la validità isolata del lavoro di uno o due dei suoi componenti, a scapito della teoria generale che lo sostiene - credo che il gruppo abbia saputo trovare delle efficaci forme di resistenza.
Emblematica, in questa chiave, mi sembra la scelta di Stefano Fontana che, unico del gruppo invitato alla sezione Aperto della Biennale di Venezia del 1988, fece realizzare le casse d'imballaggio delle sue opere da Falci e le espose accanto a queste nello spazio a lui dedicato.

La struttura particolare dell'opera scelta da Pietroiusti per Ritorno a Piombino offre invece lo spunto per sottolineare, nella partecipazione alle mostre collettive, la ricerca di un delicato punto di equilibrio che coniugasse l'appartenenza ad un contesto ad una contemporanea dichiarazione di estraneità ad esso. Invitati da Giacinto di Pietrantonio ad una delle mostre che Luciano Pistoi organizzava ogni anno al castello di Volpaia (8), gli artisti di Piombino scelsero di partecipare esponendo, anziché nel borgo medioevale in cui questa era allestita, in un anonimo bar a qualche centinaio di metri da esso.
In questo bar Pietroiusti trovò la porta della toilette pressoché interamente ricoperta di graffiti sulla sua faccia interna. Fece fare una riproduzione fotografica di questa faccia a grandezza naturale e la sovrappose alla faccia esterna, rendendo così la porta identica su entrambi i lati. Oltre ad essere l'unica opera di Pietroiusti ad avere la caratteristica di riunire in sé l'oggetto reale e la sua riproduzione, questa porta apre realmente il passaggio dell'artista da un interesse per gli oggetti a quello per gli ambienti e le architetture che contrassegnerà lo sviluppo immediatamente successivo della sua ricerca.
Nella stessa occasione Modica presentò un flipper dotato di una superficie di vetro ricoperta di vernice nera, che veniva progressivamente asportata dai movimenti della pallina lasciando filtrare la luce sottostante. Sempre nella stessa occasione, Falci presentò invece il pavimento di una pista da ballo realizzato in una discoteca delle vicinanze. L'artista espose il pavimento sulla parete esterna del bar ed esso finiva per assomigliare ad uno strano pannello per le affissioni o ad una decorazione murale.
Nel complesso, la modalità di partecipazione scelta dal gruppo in questa circostanza, diede luogo ad una forma di presenza-assenza alquanto pertinente ai termini del problema posto dall'aderire o meno a mostre marmellata.

Nonostante queste apprezzabili forme di resistenza, l'arte di Piombino ha difatto iniziato la sua decadenza nel momento in cui le esigenze della formalizzazione oggettuale hanno preso il sopravvento su quelle del processo, di cui tale formalizzazione non doveva rappresentare che un momento.
L'oggetto piombinese, avulso dalla processualità che che lo sosteneva e che veniva via via declassata a pretesto, trasformandosi in una sorta di cifra stilistica, lasciato in balia di se stesso e costantemente accostato ad oggetti fini a se stessi, ha finito per smarrire del tutto il suo potenziale di eversione della vita quotidiana, sotto il peso di dimensioni sempre più monumentali (9) e di vesti tecnicamente sempre più raffinate e curate.




Note:

(1) Comunicato stampa della mostra di Cesare Pietroiusti redatto da Sergio Lombardo, Spazio sperimentale Jartrakor, Roma 1984.

(2) In questo contesto si può inscrivere anche la mostra Interpolazioni urbane, da me curata nel maggio 1984 presso la galleria Lascala, che raccoglieva una serie di manifesti pubblicitari interpolati da graffiti anonimi che avevo accuratamente asportato dai muri della città
Un'affinità d'intenti si riscontra anche nell'opera AA.VV di Falci, Fontana e Modica, sempre dello stesso anno. Al termine della Festa dell'Unità di Piombino, gli artisti avevano prelevato un lungo pannello divisorio di tela cerata che era stato riccamente istoriato di scritte e graffiti dai frequentatori dello stand. Questo pannello fu da loro successivamente presentato in una mostra collettiva a cui erano stati invitati.

Falci, Fontana, Modica, AA.VV., striscione, 2x14m, 1984, particolare


(3) Una delle ragioni che mi spinsero a realizzare nel bar-ristorante anche le mostre successive, fu sicuramete l'inaspettato successo di pubblico della prima, Opening Oysters, una performance di Terry Fox e Marino Vismara. Altrettanto influente, nel prendere questa decisione, fu anche l'entusiasmo che i proprietari, Anna Pocchiari e Corrado Parisi, mostrarono per i progetti che avevo in cantiere.

(4) Di norma, l'inaugurazione della mostra coincideva con il giorno di riposo del locale che veniva, per l'occasione, completamente svuotato dei tavolini per assumere l'aspetto di uno spazio espositivo convenzionale.

(5) In direzione di una maggiore adesione al dato estrapolato dal reale, sempre in concomitanza con la mostra, Pietroiusti realizzò quasi casualmenteil primo dei suoi photo-objects. Avevo infatti deciso di affiancare ogni mostra de Lascala c/o con un'edizione di grafica di chi esponeva. Pietroiusti, nel tentativo di ricavare da uno dei suoi scarabocchi una lastra per la fotoincisione, si rese conto della possibilità di riprodurre fotograficamente in scala tridimensionale i materiali da lui rinvenuti.

(6) Così mi definì Carolyn Christov-Bakargiev nel suo Oggetti Auratici, dedicato al gruppo di Piombino e apparso nel novembre 1987 sulla rivista Flash Art.

(7) Lo stesso esperimento era già stato tentato da Fontana con risultati analoghi nel 1985 a Siena, nell'ambito della sua personale alla galleria Il Prisma di Mauro Tozzi. Nondimeno, nel 1988, Fontana fu invitato alla sezione Aperto della Biennale di Venezia su segnalazione del critico americano Dan Cameron che aveva visto la riproduzione di quest'opera sulla rivista Flash Art.

(8) Da zero all'infinito, mostra a cura di Giacinto di Pietrantonio, Castello di Volpaia, 1988.

(9) Affette da "gigantismo" sono sicuramente opere come Lucernario di Modica, un lucernario con i vetri incrinati e luminescenti di circa otto metri di lunghezza, realizzato in occasione della sua personale alla Galerie de Paris nel 1990; lo stesso Ponte Sant'Eufemia di Falci, un'erba realizzata per la Biennale di Venezia del 1990 e rimontata su una struttura di legno che riproduceva quella del ponticello, esposta in questa veste per la prima volta presso la galleria Alice di Roma nel 1991.
Per certi versi anche Ultra, l'ingrandimento di un portapenne realizzato da Pietroiusti nel 1987 - in cui lo strano "mobile" che ne risulta appare formalmente dominante rispetto alle tracce di biro lasciatevi dagli utenti - mostra precocemente un'analoga inclinazione.

Cesare Pietroiusti, Ultra, cibachrome su struttura in legno laccato, diam. cm. 123, h. cm. 38, 1987






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